Il Lavoro nella Costituzione italiana

Di Alberto Sgalla

Concetto generale di lavoro

Il lavoro è l’impiego delle forze psichiche e fisiche umane per la produzione dei beni necessari a soddisfare i bisogni umani. Al di là della sua forma storico-sociale il lavoro si compone di un elemento soggettivo, l’attività intenzionale, cosciente e finalistica (il prodotto del lavoro era già presente idealmente nel produttore) e due elementi oggettivi, i mezzi di lavoro e l’oggetto su cui s’esercita l’attività. Mediante il lavoro l’uomo realizza sé stesso nella natura e per mezzo della natura, trasformandola e nel contempo trasformando le condizioni della propria esistenza e la sua stessa natura, costruendo insieme i mezzi di vita e una forma di civiltà, di cultura, sviluppando le proprie facoltà, progettando il proprio autosviluppo. Il lavoro in senso generale
– è l’attività vitale in cui l’uomo afferma sé stesso ed esprime la socialità dello sforzo comune per costituire la base materiale della vita;
– ha sempre un duplice aspetto, uno naturale (processo metabolico fra uomo e natura), uno sociale (rapporto uomo-uomo), dato che ciascun essere umano dipende da altri esseri umani per lo sviluppo della sua stessa natura;
– presuppone un certo sviluppo delle forze produttive (energie naturali, capacità lavorative, conoscenze tecnico-scientifiche…) e comporta un determinato assetto di rapporti sociali di produzione (relazioni tra produttori, fra produttori e non produttori rispetto all’appropriazione delle condizioni e dei risultati del processo lavorativo).
Il lavoro è stato l’inizio delle società umana, però si è estrinsecato storicamente e si estrinseca in un contesto di rapporti di classe, di dominio, che lo hanno connotato a “labor”, travaglio, sofferenza. La parola lavoro, infatti, deriva dal latino labor, che significa, sforzo, fatica, attività penosa. Nell’antichità il lavoro era un’occupazione servile, l’attività intellettuale, creativa o guerriera non era lavoro, era attività disinteressata, di puro diletto o consacrata al bene comune. Il privilegio di classe derivava dall’essere liberi dallo stato di bisogno, dalla posizione occupata da individui e gruppi nell’appropriazione e nel controllo delle condizioni e dei risultati dei processi sociali di produzione. Ad es. nel rapporto feudale di colonìa la terra era affidata a comunità agricole servili obbligate da un rapporto di dipendenza personale a consegnare il plusprodotto al signore proprietario. Ma all’interno delle città, che godevano di una particolare autonomia, si era andato sviluppando un nuovo ceto sociale, la borghesia (artigiani, proprietari di manifatture, mercanti, banchieri, trafficanti d’oltremare), dedita all’attività manifatturiera e mercantile e caratterizzata da una nuova cultura (piena dedizione all’accrescimento illimitato del patrimonio, razionalità del calcolo economico) propria del modello di uomo mosso dal self interest come base dell’agire, dall’interesse all’accumulazione costante di guadagno monetario. Il lavoro veniva concepito come fondamento della proprietà individuale. Già Locke (1632-1704) asseriva il diritto alla proprietà illimitata: chi lavora fa propria una parte di mondo, le cui risorse naturali sono a disposizione di chi con il proprio lavoro sappia valorizzarle e farle proprie. La ricchezza, in forma di moneta (deposito di valore) che è un bene indeperibile, è accumulabile indefinitamente senza danneggiare altri. Per Locke il lavoro di un uomo è proprietà personale, egli è libero di venderlo per un salario e il lavoro venduto diviene proprietà del compratore, autorizzato ad appropriarsi del prodotto di questo lavoro. Dunque la merce-lavoro apre possibilità illimitate all’accumulazione.
Il concetto generale di lavoro si è formato però nel XVIII secolo quando A. Smith (1723-1790), rompendo con la visione dei fisiocratici, che consideravano l’agricoltura unica forma di creazione di ricchezza, di sovrappiù, considerò lavoro in generale (indipendente dall’utilità specifica dei lavori) ogni astratta attività produttrice di ricchezza, di valore di scambio. Con l’affermazione economica e politica della borghesia la ricchezza economica è stata riconosciuta come valore assoluto e il lavoro è stato concepito come attività finalizzata al profitto imprenditoriale.
Nel capitalismo
– tutte le condizioni della produzione e i suoi prodotti si sono presentati e si presentano come merci, frazioni di uno stesso astratto equivalente generale, il denaro.
– Il capitale, monopolizzato da una classe nella forma di proprietà dei mezzi sociali di produzione e dei prodotti di tali risorse, è stato separato dal lavoro divenuto astratto creatore di valore di scambio e sua misura, ridotto a quantità calcolabile; i lavori concreti sono divenuti dispendi di energia psichica e fisica quantificabili in denaro e manovrati dal proprietario del capitale per i suoi fini.
– Il lavoratore è ritenuto alla stregua di un qualsiasi possessore di merci, totalmente esposto all’arbitrio del mercato del lavoro, alienato dalla sua attività, dal suo prodotto, dagli altri uomini, che si presentano come concorrenti, compratori, venditori, mossi dalla ricerca del massimo utile privato.
– Le relazioni umane sono ridotte a relazioni puramente economiche tra contraenti; I lavoratori, dunque, vivono il lavoro non come fonte di autorealizzazione umana, ma come una necessità per la sussistenza, opposta alla vita, che inizia al di là del lavoro.
– La classe dei lavoratori è costituita dai produttori di ricchezza, cioè da persone i cui servizi s’incorporano immediatamente in ricchezza, ma che non vengono considerate come produttori, bensì come strumenti di produzione di carattere personale.
Nel sistema capitalistico Il lavoro è ritenuto produttivo se valorizza un capitale, se, impiegato nella produzione, dà luogo a prodotti il cui valore supera quello degli impieghi effettuati, se consente una produzione accumulativa, cioè genera plusvalore (profitto e rendita). Infatti la forza-lavoro è unica fra le merci a possedere la qualità di produrre col suo uso nel processo di produzione più valore di quanto ne costi, di fatto nel contratto di lavoro si realizza uno scambio di non equivalenti, salario contro plusvalore.

Con le lotte del movimento operaio e il diffondersi universale del pensiero socialista s’è affermata l’idea che il lavoro ha un senso se si lavora per sé e per la comunità in cui si vive, potendo controllare comunitariamente le condizioni oggettive e soggettive del proprio lavoro e dei suoi prodotti.
Va ricordato che una forma di proprietà sociale esiste già nei paesi capitalistici, la cooperativa, società a scopo mutualistico, non lucrativa, che però è obbligata a gestire i propri mezzi di produzione secondo la logica del capitale.
Per il socialismo il lavoro ha un senso se il tempo dedicato al lavoro necessario alla vita materiale è ridotto a un tanto per assicurare la sussistenza di tutti i membri della comunità, se accrescere la produttività del lavoro significa diminuire la parte di tempo che occorre agli individui per riprodursi materialmente e insieme riprodurre la società. La vera ricchezza dell’uomo emancipato, non più in preda a uno stato di bisogno, consiste nella sua “profonda sensibilità a tutto”, che è fonte di felicità. In Marx si sente l’eco dell’amore tutto greco e anche neoclassico, giacobino, per l’immediatezza della felicità e la polivalenza delle attitudini, l’eco della stima, dell’onore, che era per i Greci la ricompensa dell’agire. Marx contrappone
– il “regno della necessità”, cioè del lavoro necessario per soddisfare i bisogni, in cui i produttori associati, grazie all’espansione delle forze produttive (e alla riduzione della giornata lavorativa) regolano razionalmente il “loro ricambio organico con la natura”;
– al “regno della libertà”, cioè dello sviluppo, fine a sé stesso, delle capacità umane, delle attività liberamente scelte dall’uomo, autogratificanti; il regno della ricchezza dei rapporti sociali e culturali e della creatività del lavoro liberato. “Il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna”, fiorisce al di là del regno della necessità.
Il valore delle prestazioni d’opera nel “regno della necessità” sta nel liberare tempo di vita che permette a ciascuno di seguire le proprie vocazioni. Il lavoro è “attività libera” se risponde ad un bisogno interiore per l’uomo, quello della manifestazione creativa della vita, dell’oggettivazione nella vita sociale delle qualità e delle energie umane, dell’autorealizzazione. Per il socialismo, dunque, l’aumento della produttività del lavoro e la riduzione della giornata lavorativa significano riduzione del lavoro necessario a vantaggio del lavoro libero, per soddisfare “bisogni” umani superiori, liberare tempo di vita da dedicare ad attività non di mercato, che non implicano controprestazioni in denaro, ma creano utilità sociale, elevazione intellettuale e morale, autogratificazioni.
Un flusso regolare di ossigeno e di cibo è necessario per la sopravvivenza, risponde ad un bisogno. Un rapporto emotivamente ricco e stimolante, il piacere della lettura, di un’espressione artistica, dell’esplorazione del possibile, non rispondono ad un bisogno (vuoto da colmare), corrispondono ad un desiderio di vita vera, quell’esistenza libera e dignitosa nominata dall’art. 36 Cost.
Si apre la prospettiva di una socializzazione non mediata dalla mercificazione dei bisogni.

Il Lavoro nella Costituzione italiana

Il concetto di lavoro (artt. 1 e 4) posto alla base della Repubblica è un riverbero della concezione marxista e socialista, è considerato non come un’attività umana qualsiasi, ma come attività cosciente e finalistica di produzione dei mezzi di vita e di trasformazione delle condizioni di esistenza, di realizzazione della personalità e di adempimento del dovere di solidarietà. Il lavoro viene assunto in un concetto ampio, come fonte di ogni ricchezza e di socializzazione, creatore del substrato materiale della cultura e dello sviluppo umano. È un valore presentato come un “modo di vita”, di fare, di pensare, di comunicare, che ha fatto e fa del mondo in cui l’uomo vive un prodotto umano, un ambiente sociale.
Il lavoro viene assunto come
– criterio ordinatore dell’assetto economico volto alla tutela e alla promozione integrale della personalità umana;
– opera di civiltà, attività o funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società (art. 4), potenza costruttiva, che plasma la materia, la studia, la esplora perché riveli tutto il suo valore e la sua fecondità. 
Il lavoro come valore costituzionale, dunque, prevede un superamento della configurazione classista della società, infatti i rapporti di classe sono visti come “ostacoli di ordine economico e sociale” (art. 3) alla piena partecipazione politica dei lavoratori, allo sviluppo armonioso e completo della personalità, definibile come felicità in rapporto alla natura espansiva dell’essere umano, che tende verso beni esistenziali, espressivi, relazionali, beni di civiltà, irriducibili all’utile economico, a un calcolo di mercato. A partire dal diritto al lavoro, la cui effettività deriva dalle condizioni promosse dalla Repubblica, i diritti di libertà sussistono, a condizione che venga garantita la loro libertà dal mercato e l’apertura ad una trasformazione della società in una tendenziale comunità di progetto.
È nettamente respinto il modello liberale di un ambiente vitale ridotto a merci e denaro.

La Libertà

Il lavoro nella visione prospettica della Costituzione è legato alla libertà, che, in dottrina, viene in generale definita la situazione in cui l’essere umano può agire senza costrizioni o impedimenti, possedendo le risorse (mezzi, capacità) per determinarsi secondo un’autonoma scelta dei fini e dei mezzi adatti a conseguirli. Per libertà s’intende dunque la possibilità d’essere sé stessi, di decidere in modo autonomo la propria forma di vita; la libertà dell’“io situato”, cioè interno ad uno stato di cose indipendente da lui, a partire dal quale l’io si dà un progetto di fioritura, superando gli ostacoli che impediscono di conseguire la pienezza umana.
Con l’idea moderna, sociale, di democrazia è stato riconosciuto il principio della indivisibilità della libertà. Cioè i diritti costituzionali formano un sistema in cui la lesione di una parte si ripercuote sulle altre parti (ad es. la limitazione del diritto al lavoro incide sulla libertà personale perché preclude il conseguimento delle condizioni minime d’esistenza).
La libertà si distingue in libertà negativa, cioè agire senza impedimenti e costrizioni e libertà positiva, che richiede strutture oggettive che la rendano possibile, libertà effettiva, posta come sicura (da positus), legata ad una concreta possibilità d’azione, per la quale essere liberi vuol dire avere le risorse che consentono di autodeterminarsi, di prendere decisioni da sé senza essere determinati dalla volontà di altri o da forze estranee al proprio volere. L’art. 3 infatti affida alla Repubblica l’obbligo di eliminare gli ostacoli che impediscono di fatto libertà ed eguaglianza e l’art. 4 l’obbligo di rendere effettivo il diritto al lavoro.

Per il costituzionalismo democratico-socialista non tutte le situazioni di libertà meritano lo stesso apprezzamento, non qualsiasi libertà è un valore (ad es. non è un valore la libertà di diminuire la dignità umana o la libertà di controllare i mezzi d’informazione). La libertà del lupo d’azzannare l’agnello non ha lo stesso valore della libertà dell’agnello dalle fauci del lupo. Viene posta in rilievo non la libertà astrattamente intesa, ma l’eguale distribuzione delle libertà; infatti sono stati introdotti i diritti sociali, economici e culturali, come diritti ad accedere alle risorse comuni, per la dignità umana e il libero sviluppo della personalità. Libero è chi è auto-nomo, cioè chi può governare sé stesso, libero di volere, di maturare un giudizio responsabile in condizioni di autonomia, libero da condizionamenti economici e informativi. La libertà come governo di sé è il potere di creare sé stessi, dare uno stile alla propria vita, amare le intensità, usare l’energia vitale per esplorare, sperimentare, scoprire i limiti, quelli che possiamo superare e quelli che sono insuperabili, perché sono limiti che danno forma alla libertà e al piacere, ci salvano dall’indistinto.
Secondo il pensiero democratico-socialista bisogna distinguere fra due tipi di libertà:
– libero (libertà da) è chi non subisce imposizioni, chi non è sottoposto al potere di qualcuno che dispone di lui, per cui la libertà d’un soggetto equivale alla negazione di potere altrui (potere su);
– libero (libertà di) è chi dispone di un potere proprio (potere di), cioè può compiere una scelta o un’azione sia nel senso della possibilità-liceità, sia nel senso della possibilità soggettiva (è capace di, ha i mezzi per compiere una certa azione; cioè è in grado di agire perché ne ha le risorse).

Eguaglianza Sostanziale

Con il principio di Eguaglianza Sostanziale (art. 3, c. 2) il costituente pone come fine essenziale della Repubblica realizzare le condizioni di fatto che consentono il pieno godimento dei beni della vita e l’autorealizzazione umana. L’eguaglianza sostanziale mira ad assicurare a tutti una vita sicura e decorosa, in cui sia realizzata la libertà dal bisogno, da un tenore di vita degradante, condizione preliminare per l’effettivo godimento delle libertà civili e politiche, opportunità di arricchire la propria personalità fruendo del “comune patrimonio della civiltà”, che “prolunga i nostri sensi e intensifica e affina la nostra capacità di godere” (Cerroni). Comune bagaglio di civiltà tutelato dall’art. 9, secondo cui il patrimonio storico e artistico della nazione, il paesaggio, la ricerca scientifica e creativa sono Beni Comuni. Sviluppo, ricerca, cultura, patrimonio costituiscono un tutto inscindibile, il cui valore è extraeconomico. Tale insieme ha un ruolo civile: rappresentare e strutturare la comunità nazionale, migliorare la qualità della vita collettiva e personale, affinare la percezione della realtà, intensificare l’esperienza, per affrontare la complessità, superata ogni spiegazione semplice del mondo, lavorare sulla tensione fra mentale e forma, fra concetto e immagine. La Corte Costituzionale, in una sentenza del 1986 ha indicato “la primarietà del valore estetico-culturale che non può essere subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici”.
L’art. 3, c. 2 prefigura un nuovo modello di società, ritenendo l’assetto economico decisivo per la realizzazione di una società di liberi ed eguali, aggiunge alla tutela negativa (divieto di discriminazioni) una tutela positiva, per compensare la classe di coloro che ricavano i mezzi di vita dal loro lavoro, di quelle carenze di fatto che impediscono il pieno sviluppo della personalità e per impedire che gli squilibri e la disgregazione di una società divisa in classi finiscano per svuotare i principi costituzionali.

Solidarietà

Nella Costituzione sono affermati i doveri di cittadinanza, che impongono un esercizio della libertà entro una dimensione di civile responsabilità diretta all’affermazione del bene comune, partendo dal principio che il bene personale è inscindibile dalla vita e dal bene della comunità, nella quale ognuno trova le opportunità per realizza sé stesso (art. 29 Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, 1948). Con le lotte del movimento operaio il costituzionalismo ha ripreso vigore in senso “sociale”,
– per superare l’astrattezza dei diritti umani, facendo valere come interesse generale la soluzione dei problemi della miseria, dell’ignoranza, dell’alienazione, della degradazione umana, dello sfruttamento economico;
– per affermare l’esigenza umana di godere d’una vita libera e dignitosa partecipando alla creazione e all’uso delle risorse che costituiscono la ricchezza nazionale, dato che l’individuo può risolvere la propria finitezza e dare senso compiuto alla sua brama di essere nella totalità sociale.
Il lavoro nella Costituzione, dunque, è in prospettiva considerato in un contesto comunitario con una base d’omogeneità sociale, dove vige la solidarietà (art. 2), azione rispondente ad una sostanziale convergenza di interessi, di idee, di sentimenti (amor di patria), coscienza viva ed operante di partecipare ai vincoli d’una comunità, condividendone le necessità, in quanto s’esprime in iniziative di mutuo sostegno materiale e morale.
I diritti economici, sociali e culturali, diritti alla qualità della vita come bene comune, si basano su questo principio solidaristico, sul recupero della dimensione collettiva, della molteplicità del vivente, che il dispotismo della razionalità economica ha rimosso riducendo i cittadini a individui chiusi nello spazio tecnico in cui funzionare e nella depressione del loro privato. Il sociale è essenziale per la produzione e la condivisione di senso, di esperienze, di valori unificanti, è lo spazio pubblico in cui esprimersi, in cui si svolge una storia di creatività ragionata, è lo spazio mediatore fra individualità e sistema, corposo, vitale, vero luogo d’incontro e di scambio.
L’esercizio di questi diritti (es. percepire un reddito di dignità, godere della salute come benessere fisico, psichico e sociale) comporta trasformazioni in profondità dell’assetto sociale, tende a modificare il rapporto di forza fra capitale e lavoro, attenuando la dipendenza dei lavoratori dal mercato del lavoro e dal potere economico privato e finisce con l’incidere in modo sostanziale sulla gestione del potere. Lo Stato sociale de-mercifica ambiti di vita, di sapere, di comunicazione, diminuisce il controllo del capitale sulla forza-lavoro, sulla sua formazione e sul suo impiego, potenzia le capacità di partecipazione sociale e politica dei lavoratori.

Elementi di socialismo nella Costituzione italiana

Le norme costituzionali rifiutano il liberalismo economico o liberismo, in cui:
– motore dell’attività economica è la ricerca del massimo utile individuale, per cui ciascuno dev’essere libero di perseguire il proprio interesse come gli conviene, pensando alla propria sicurezza e al proprio guadagno;
– la concorrenza fra gli egoismi economici, nel libero gioco “naturale” delle forze di mercato, è il meccanismo regolatore della società; per l’individuo, nei rapporti di mercato, gli altri sono o strumenti o ostacoli per la soddisfazione dei propri bisogni;
– lo Stato deve attuare la politica del laissez faire, deve solo mantenere dall’esterno l’ordine economico, astenendosi da misure programmatrici, correttive, redistributive, tali da alterare la libertà del mercato, che dev’essere principio fondamentale di distribuzione delle risorse;
– il lavoro umano è considerato una merce che i capitalisti comprano al prezzo più basso possibile;
– la proprietà è la posta che i più abili nella competizione conquistano nello spietato gioco del mercato.
Il fondamento teorico più alla moda per l’economia di mercato, oggi, è la teoria dei giochi, ben illustrata dalla Borsa (ogni individuo che compra o vende in Borsa è come se stesse partecipando a un gioco), l’azione simultanea di tutti gli speculatori corrisponde a un gioco non cooperativo, i giocatori agiscono in modo indipendente per massimizzare il proprio guadagno. Il gioco nel mercato finanziario o il gioco degli scacchi, è come una battaglia, in cui ci sono vincenti e perdenti, gli esseri umani, dotati di un certo numero di preferenze, sono tesi unicamente a soddisfare queste preferenze a spese degli altri concorrenti, in una società-casinò in cui i giocatori possano affrontarsi senza distrazioni. Al centro di tale teoria c’è il c.d. “dilemma del prigioniero” (collaborare o tradire?): il meglio che possa capitarmi è ottenere quel che voglio a spese degli altri.
Quello del libero mercato è un gioco a somma zero, il “vincente” vince ciò che perdono gli altri, non si può vincere tutti insieme, crescere, arricchirsi umanamente tutti insieme. In tale modello qualcuno guadagna a spese di qualcun altro, quindi parte del genere umano è inutile, superflua, priva di valore. Nel modello liberale Il valore netto di un individuo è costituito dalla somma algebrica del valore di mercato dei suoi beni materiali e dei suoi debiti; anche abilità e conoscenze hanno valore in base alla loro “domanda”, hanno valore se hanno un mercato, non se contribuiscono all’accrescimento di vitalità e all’espansione di orizzonti.

Sono entrati a fondamento della Repubblica i valori promossi dai movimenti d’ispirazione socialista, che richiedono l’intervento pubblico per promuovere il ben essere della comunità (non l’avere delle merci) e per contrastare le iniziative private che sacrificano gli interessi collettivi, in una società, quella capitalistica, che non è un ordine armonico, ma conflittuale, profondamente diviso secondo interessi di parte. Parliamo dei valori del lavoro come cooperazione organica e azione creativa finalistica, di libertà positiva, di giustizia sociale, di beni comuni, ecc. Per il socialismo l’interesse generale non è l’esito della spontanea combinazione degli interessi individuali nel gioco del mercato, ma è un bene che fonda un cosciente legame sociale cooperativo e solidale, bene che deriva dalla giustizia, cioè dall’equa distribuzione dei beni sociali primari, quelle risorse fondamentali, quelle condizioni preliminari, che consentono a ciascuno di progettare la propria fioritura umana.
Per il socialismo “ogni opportunità che ciascuno ha sviluppato è una voce disponibile per ampliare il repertorio comune” (E. Bencivenga”), va promossa una polifonia di interessi, la ricchezza dell’essere. La libertà (intesa come poter fare sé stessi, avere i mezzi, le capacità per compiere un’azione, nelle concrete condizioni di vita) è posta come meta perseguibile solo tramite l’appropriazione collettiva delle forze materiali da parte di cittadini-lavoratori organicamente uniti, la libertà che presuppone la possibilità di padroneggiare le condizioni individuali e collettive di sviluppo umano. La Cost. non vede la società civile come insieme di rapporti orientati verso un fine di valorizzazione delle capacità umane, ma come sede di diseguaglianze, squilibri, antagonismi, riconosce che libertà ed eguaglianza sono in concreto limitate dall’assetto reale, materiale, dei rapporti di forza tra le classi, per cui lo Stato deve rendere effettivi i valori proclamati correggendo l’ingiustizia della struttura economica e sociale. Si profila una soggettività che trascende il formalismo, l’astrazione del soggetto borghese, l’altro, il proletario, che non ha bisogno della proprietà e del dominio per affermare la propria individualità, è contestualmente un elemento del sistema e un antagonista del sistema. L’altro è dentro il sistema e si proietta fuori dei suoi confini, al di là del conformismo omologante, di una distribuzione delle risorse basata sui rapporti di forza nella società, per un’economia di piano in contrasto con lo spirito selvaggio del mercato capitalistico.
La natura di un seme sta nel poter diventare una pianta, quel che il seme è in potenza è parte della sua essenza, per il socialismo gli esseri umani hanno una natura legata al loro potenziale di attività e di felicità conseguente a tale attività. Per la Cost. Stato e società civile devono creare le condizioni affinché i cittadini possano realizzare appieno il potenziale che essi sono, liberarsi dalla tirannia del concetto di bisogno e dedicarsi ad attività dotate di un potenziale di comune arricchimento (es. cura della bellezza dell’ambiente, ricerca scientifica, scavi archeologici). Tutti sanno che i docenti imparano molto dai propri studenti o i medici dai propri pazienti, in un rapporto di scambio non commerciale.
Nell’art. 4 il lavoro viene visto come diritto, forma di dominio sulle cose e di governo della propria esistenza e anche nel suo aspetto sociale di forza cooperativa per lo sviluppo materiale e culturale delle risorse della società, dunque come dovere. Poi da una trattazione ideale del lavoro si passa alla realtà storica, concreta, del lavoro esercitato in condizioni capitalistiche, lavoro come semplice strumento al servizio dell’iniziativa economica del proprietario del capitale (art. 35-37) ponendo limiti a chi ha il potere di determinare le condizioni di vita e di lavoro di altri esseri umani in base al proprio potere economico. Lo Stato prende atto che la dignità umana e il livello di sussistenza generale dipendono dal mercato del lavoro, per cui l’intervento pubblico deve
– provvedere agli essenziali bisogni umani laddove il “libero” svolgersi dei rapporti di mercato li nega o non li soddisfa adeguatamente (art. 38),
– riconoscere i principali strumenti di autotutela che il movimento operaio si è dato (art. 39, 40), combattendo la mercificazione del lavoro attraverso la contrattazione collettiva, la trasformazione del lavoratore individuale in lavoratore collettivo,
– essere diretto a rompere il nesso fra proprietà e potere e a trasformare l’organizzazione sociale perché il lavoro diventi realmente, in condizioni egualitarie, il fondamento di condivisione, cooperativo, del progresso civile.
L’utilità sociale, la sicurezza, la libertà e la dignità umana non devono essere compromesse dalla libertà d’iniziativa economica lucrativa. L’attività economica pubblica e privata deve essere indirizzata e coordinata a fini sociali attraverso piani e controlli stabiliti per legge (art. 41). I beni economici appartengono, secondo un ordine gerarchico, allo Stato ad enti o a privati. La legge deve determinare i modi d’acquisto e di godimento, i limiti necessari ad assicurarne la funzione sociale e l’accessibilità. È prevista l’espropriazione per motivi d’interesse generale. È prevista la nazionalizzazione di imprese o categorie d’imprese di preminente interesse generale, relative a servizi pubblici essenziali, a fonti d’energia, a situazioni di monopolio (art. 43). La proprietà terriera privata è sottoposta a vincoli, obblighi, limiti al fine di ottenere un razionale sfruttamento del suolo e stabilire equi rapporti sociali (art. 44). Sono riconosciute la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fine di speculazione privata, la necessità di stabilire per legge tutela e sviluppo dell’artigianato (art. 45), il diritto di collaborazione dei lavoratori alla gestione delle imprese (art. 46).
Lo Stato deve fare in modo che siano soddisfatti i bisogni irrinunciabili (casa, cibo, vestiti, gestione della salute e dell’istruzione…), condizione necessaria perché lo sviluppo del modo d’essere umano possa realizzarsi
In una prospettiva socialista il lavoro necessario per la soddisfazione dei bisogni irrinunciabili va inteso come una corvè di carattere strumentale e va diviso equamente. Stabilito quanto di questo lavoro sia richiesto, ognuno farà la sua parte e lo Stato-comunità, in tale prospettiva, deve adoperarsi per promuovere un uso umano del tempo libero (facilitare lo scambio di abilità e conoscenze, aggregare gruppi d’interesse intorno a progetti comuni, mantenere aperto un laboratorio di idee, provvedere le infrastrutture necessarie per realizzare le attività libere), affinchè i cittadini possano comunicarsi, mettere in comune, le loro esperienze, il patrimonio di cultura, che si può solo vivere, non vendere e comprare.

Libertà dal mercato

Per la Costituzione italiana, dunque, la libertà consiste nel non essere soggetti al potere di qualcuno che può disporre di lui, nell’esercitare un potere proprio di attribuzione di significato agli eventi della vita personale e collettiva, è poter vivere la pienezza dell’esistenza. Una libertà che comporta impegni e conseguenze.
Nel capitalismo soggetti privati (privatus = tagliato da, separato da) dispongono d’un potere capace di condizionare e indirizzare scelte e comportamenti; dispongono
– del potere economico, che s’esercita tramite il controllo della ricchezza, su individui considerati fattori di produzione di merci, mediante il controllo delle risorse materiali ad essi necessarie; potere di disporre e di decidere in modo esclusivo sulla produzione, l’uso e la divisione della ricchezza (cosa, quanto, come, dove produrre);
– del potere ideologico, che s’esercita, mediante il controllo dei mezzi d’informazione e di persuasione, su individui considerati menti orientabili nel giudizio sul vero e il falso, sul bene e sul male, che costruiscono la propria esperienza a partire dalle immagini e dalle notizie che ricevono.
Lo squilibrio fra eguaglianza formale dei diritti e diseguaglianza sostanziale dei poteri, l’ineguaglianza di risorse disponibili, nel potere di godimento dei diritti fondamentali, fa sì che pochi privilegiati sono di fatto in grado di determinare il comportamento altrui.
Le lotte del movimento operaio hanno affermato che la libertà di mercato può ledere i diritti fondamentali, che debbono pertanto valere come limiti di quella. Infatti la sfera di liceità delle libertà economiche incontra necessariamente un limite: non tutto si può comprare e vendere. Il corpo, la dignità, il pensiero, il paesaggio, le attività e i beni culturali, la salute, ecc. non hanno un valore di scambio. Di fronte alla logica del mercato (dell’alienabilità), che pervade ogni sfera della vita sociale, assegnando a tutto un prezzo, il pensiero progressista e socialista ha affermato che i diritti fondamentali sono indisponibili, cioè sono sottratti al mercato, per la stessa ragione per cui sono sottratti alle decisioni del potere politico. Nessun potere economico può acquistare i diritti di libertà di un individuo, né quest’ultimo può venderli. Mentre la libertà di mercato si fonda sull’alienabilità di ciò che rientra nella propria sfera, le libertà fondamentali sono inalienabili quindi vanno sottratte al mercato.
La Costituzione formale tende a proteggere la libertà dalle ingerenze e dagli arbitri dei poteri privati, che mirano a penetrare nell’ambito interiore della coscienza, nella sfera psichica, per impadronirsi dei meccanismi individuali di decisione, con interventi di manipolazione psicologica.
L’ art. 3 pone a fondamento dei diritti fondamentali la libertà spirituale, intesa come condizione esistenziale senza la quale nessuna azione può dirsi frutto d’una scelta, come possibilità di essere sé stessi, di sviluppare e manifestare la propria personalità.
Nella Costituzione formale non è prevista la “civiltà del profitto”, unico generatore simbolico di un ordine dove avere cittadinanza, non è dato per insuperabile il lavoro-merce, che ha il fine di concorrere alla crescita illimitata della produzione di merci, che nulla hanno in vista se non la loro irrazionale moltiplicazione e la crescita dei bisogni indotti (per compensare la depressione). A fondamento della Repubblica è posto il lavoro come svolgimento di un’attività “che concorra al progresso materiale e spirituale della società”, allo sviluppo umano (art. 4), criterio per il riconoscimento della dignità morale e sociale del cittadino, forza operante per il realizzarsi della persona umana nella pienezza delle sue capacità e attitudini. S’afferma il principio che l’essere umano è volto al perfezionamento delle sue capacità per godere di tale progresso e che ha dei doveri verso la comunità, unica a poter garantire il processo di autorealizzazione umana.

Trasformazione postfordista del lavoro

È declinato il tipo di rapporto fra Stato e società civile che era al centro della Costituzione formale (economia mista, compromesso interclassista delegante all’amministrazione la soluzione dei conflitti…). Oggi è stato smantellato il Welfare State, che si poneva il problema del bene comune e della sicurezza sociale, il mercato e la tecnica sono il nomos, si assiste ad uno svuotamento dei diritti fondamentali, alla presenza di risorse sempre più diseguali per fruire di tali diritti, all’ipertrofia del mercato autoregolato, che ha occupato gli spazi della politica e dell’immaginario collettivo.
Il libero mercato, il business, svolgono un’azione pedagogica, educano ad una concezione della natura umana in cui il tipo umano è vuoto, ridotto a “player” in competizione, alla ricerca continua d’acquisizione di cose e denaro. Mercato e business sono divenuti la forma del mondo, l’economia di mercato è diventata società di mercato, la scienza è divenuta funzione, fattore, del processo produttivo. Il modo di produzione è dominato da forme di accumulazione flessibili, capaci di mettere in rete modi, tempi e luoghi di produzione diversi (fabbrica robotizzata, distretti industriali, lavoro autonomo, centri della finanza globale…), rendere omogenei forme di vita e tempo di lavoro. La virtualizzazione crescente dell’esperienza, la promozione di identità fluide, l’insicurezza come tratto specifico dell’esistenza, delineano un modello sociale mobile, una società mondiale del rischio e dell’incertezza. L’impresa è modulare, snella, virtuale, transnazionale; interagiscono il mercato del lavoro tradizionale, quelli informali locali e quelli del lavoro internazionale. L’imperativo categorico è diventato competizione, flessibilità, precarietà, promozione dello spreco mascherato da bisogno, che generano paura, disincanto, disorientamento, sradicamento. “Materie prime” sono l’informazione, le relazioni
Il lavoro non è più misurabile in base ad astratte unità di tempo, non produce più identità e socializzazione, dissolto nella frammentazione, nel trionfo dell’indefinito e del narcisismo infantile. I lavoratori devono sapersi vendere, essere attrattivi (anche i territori devono mostrarsi appetibili per gli investimenti privati). Nel lavoro gli individui assumono una maschera, un’identità spendibile, devono automotivarsi, saper entrare in feeling, sono la personificazione di rapporti economici, l’io è interpellato per la sua funzione, l’ideal-tipo è l’uomo modulare, che pensa sé stesso come un prodotto, una persona-servizio.
Gli individui sono agiti dal mercato (e dalla tecnica) contano solo per quanto possono spendere, sono funzionari, a diversi livelli, del capitale in un mondo regolato dai soli criteri dell’accumulazione infinita e della competizione sfrenata. La dismisura segna il disordine del mondo, il male. In questo contesto ogni azione (anche quella apparentemente di svago, di divertimento, di tempo libero…) assume le sembianze del lavoro.
Il liberalismo economico è stato rimosso nella stagione costituente e poi della ricostruzione e dello sviluppo economico del paese, in cui il movimento operaio è stato attore decisivo; una volta rimosso si è stabilito in una sorta di “inconscio sociale”, da dove ha inviato delle “formazioni sostitutive” del desiderio capitalistico rimosso. Esiste ormai da decenni una costituzione materiale in cui conta la costellazione dei poteri di fatto e il modello umano di riferimento è l’homo oeconimicus, con la sua incontinenza affaristica, l’io ridotto a “capitale umano” nella società-teatro della merce, dove fare marketing di sé. All’impresa interessa l’efficienza, la piena disponibilità e sostituibilità della forza-lavoro, la sua capacità di parlare il linguaggio dell’apparato e di condividere lo “stile” dell’azienda, la sua missione competitiva. Con il toyotismo si sono posti due presupposti per una costante mobilitazione totale, il just in time (zero stock, zero difetti, zero conflitti, zero burocrazia, produrre solo quando e quanto è necessario) e l’autoattivazione dei lavoratori, come braccia e menti, plurimansionali.
Nella trasformazione postfordista, dunque, il lavoro esibisce sempre più capacità di autocontrollo dei risultati, di gestione interattiva, adattamento all’instabilità e al rischio, chiacchiera, astuzia, seduzione (dati da puttana e da prete per dirla con Smith), competenze comunicative, relazionali, cooperative, inventive, di compartecipazione (pur distorte e svilite servilmente dalla sua sussunzione al dominio capitalistico). 
Per capire l’attuale fase del capitalismo va messa in gioco la nozione di intelletto generale, cioè del sistema di competenze, conoscenze, attitudini coltivate, patrimonio condiviso di saperi e regole. Intelletto generale sia come sapere oggettivato in un sistema di macchine sia come attributo del lavoro vivo. Mentre il lavoro (sotto il vincolo persistente del salario e del dominio di classe) mostra i connotati tradizionali della politica (cinismo calcolatore, simulare e dissimulare, artifici dotati di forza persuasiva), questa prende i tratti dell’impresa e della performance spettacolare.

Operai, tecnici, studenti negli anni dalla seconda metà degli anni ’60 alla fine degli anni ’70, hanno organizzato lotte e  ricerca teorica, hanno posto al centro della società la classe politecnica del lavoro, che si è confrontata con la trasformazione profonda del modo di produzione e dell’intero assetto sociale, con la crisi del senso della misura, (“Il tempo di lavoro è divenuto una base miserabile per la definizione della ricchezza sociale” dice Marx), con il fatto che valore, lavoro, giustizia non si ripartiscono secondo una comune misura, non c’è più la razionalità del premio (successo economico) e della pena (miseria, fallimento), non c’è modo di risolvere razionalmente il problema del valore.
I lavoratori hanno manifestato di vivere il lavoro come insensata attività penosa, nell’intreccio smisurato di forze produttive e d’istanze di comando. Tolto alla razionalità della misura il lavoro, che ha inglobato in sé l’intera vita, nella società definibile come una generale sinergia produttiva, è divenuto male.
La dismisura crea dolore, subire l’arbitrario del comando, l’irrazionale “onnipotenza” del capitale, la sua incapacità di essere giustizia, è sofferenza. Ma rimane la necessità di creare. Occorre chiedere ragione del male, rifondare un ordine, risorgere dal dolore e dall’infelicità, costruire una nuova misura, un valore incarnato, una nuova possibilità di giustizia, i produttori animati dalla passione della creazione sono in grado di andare oltre lo smisurato dominio del capitale.
Dove fondare questa nuova normatività? Fondamento è il soggetto (da subjectum, ciò che è posto sotto, alla base, ciò che fonda, regge ciò che non sta di per sé), che costituisce uno dei due aspetti essenziali della realtà, è l’essere pensante, l’io, che si contrappone all’oggetto, alle cose. All’interno del soggetto inteso come fondamento diviene dominante la soggettività come coscienza, che è alla base della modernità. Con la rivoluzione umanistica è nato un nuovo tipo di coscienza di sé, inscindibile dalla fierezza dell’autodeterminazione, è nata la concezione moderna del soggetto fondata sulle trasformazioni della natura umana, che caratterizzano il Rinascimento e la nascita del pensiero scientifico. Il soggetto è attore di un progresso, centro di conoscenza e creatività, il cui oggetto è la realtà materiale, direttamente conoscibile. Le cose a venire sono legate alla razionalità del progettare, non più al destino. L’uomo ha una nuova immagine di sé; diventa pensabile, attraverso un progetto di ricerca, l’idea di un futuro costruibile.
Questo soggetto-fondamento oggi è plurale, è la classe-“moltitudine” radicata nella potenza cooperativa, solidale, del lavoro, dell’intelligenza generale, fonte di ricchezza comune, che può riconquistare i fini della scienza, costruire modi di collaborazione basati sulla fiducia reciproca, una nuova forma del valore, in una concezione conviviale del valore, “resurrezione della carne”, che attraverso il lavoro-sofferenza ha fatto esperienza e compreso l’ingegnosità del lavoro e la plasmabilità della materia. Non ha misura la potenza che crea, è lei che regola la realtà, stima, dosa.
La Costituzione formale, dunque ha delineato un programma, un progetto di società, che le lotte e l’elaborazione teorica della classe politecnica del lavoro ha sviluppato dentro le trasformazioni del modo di produzione e della società intera. Un progetto basato sulla liberazione del corpo come creazione, della comunicazione fra i corpi, sulla sottomissione del destino alla potenza del lavoratore collettivo, costituito da una nuova trama di bisogni, desideri, saperi e capacità di godere, costituente di valori, di un nuovo mondo. Potenza liberata da una condizione di miseria, di alienazione, di riduzione a semplice mezzo di riproduzione degli assetti di potere e di sfruttamento dati. Potenza derivante dalla ragione che funziona solo tra chi condivide la stessa simbolica (pre-razionale) all’interno della stessa visione del mondo. Un progetto di costruzione di un mondo intorno alla coscienza di sé d’una classe generale, che, soppressa l’alienazione, faccia diventare universale (universalità della comunicazione e della cooperazione) il proprio interesse di classe. Anche se l’eliminazione dello sfruttamento e dello sradicamento è solo la premessa per arrivare all’omogeneità sociale, in cui l’io possa potenziare le sue capacità fisiche e cognitive in un Noi, in uno scambio di abilità e conoscenze (basato sull’essere) fra individui che si comunicano ciò che hanno a disposizione, divenendo così più ricchi, creando un sodalizio non effimero.
Un progetto di società in cui si parte dall’idea che l’essere umano è infinito o, direbbe A. Badiou, immortale, nel senso che la sua attività non ha limiti, è ricerca, sperimentazione, nella comunità che si adopera per aggregare le risorse di tutti i suoi membri in progetti d’interesse comune e quindi per consentire a tutti di vivere un’esistenza degna, dotata di senso e valore.
Un progetto di società in cui siano definibili
– il regno della necessità, che, eliminati i bisogni fittizi, indotti (stato analogo alla tossico-dipendenza), consiste nelle prestazioni d’opera basate su quanto è comune considerare necessario, nel produrre solo beni funzionali alla realizzazione di una vita degna, il regno del lavoro riferito al processo biologico della vita;
– il regno della libertà, dove, una volta assicurato ciò di cui i cittadini hanno bisogno per vivere, garantito dal loro contributo alle prestazioni d’opera comuni, si dispiega il piacere nell’azione (ad es. archeologia) che è fine in sé, valore in sé, scambiarsi competenze e saperi, potenzialità che ci arricchiranno, avere come fine la qualità della vita, una più alta intensità e partecipazione, un’abbondanza di beni che non hanno prezzo, di talenti, causa di vigore e vitalità.

Diritto alla riservatezza

La dialettica che si realizza nella vita rende possibile il superamento della contraddizione di classe, l’autoemancipazione dei lavoratori, prevista dagli art. 39 e 40 Cost. Il mondo capitalistico è costituito da una dualità, da classi implicate nel nesso dello sviluppo capitalistico presentato come destino, il nesso fra un comando che si nutre di lavoro e un lavoro-forza-invenzione che si organizza nella disciplina ed esprime la vita intesa come energia e impulso creatore, è in grado di palesare una potenza positivamente volta all’accrescimento dell’essere, una forza cooperativa capace di dare forma al mondo comune.
Il processo di autoemancipazione può approdare all’individuo sociale produttore (deposito delle potenze della scienza e della natura), può realizzare una liberazione generale, la condivisione di una forza capace di coltivare il bene comune in uno spazio vitale unitario.
Infatti un importante sviluppo dei diritti fondamentali è stato realizzato dal ciclo di lotte del ’68-69, sfociato nella stagione riformatrice degli anni ’70 (Statuto dei diritti dei lavoratori, legge sugli asili nido, riforma del diritto di famiglia, riforma penitenziaria, istituzione dei consultori familiari, parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, riforma psichiatrica, legge per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza, istituzione del servizio sanitario nazionale).
Ad esempio l’art. 8 dello Statuto dei Diritti dei Lavoratori (L. 300/1970), recita “È fatto divieto al datore di lavoro …di effettuare indagini…sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore”. I lavoratori hanno conquistato il diritto alla riservatezza, intesa come zona di immunità dalle ingerenze dei poteri privati e pubblici nella propria vita privata, che si è poi esteso alla generalità dei cittadini.
Le imprese, infatti, raccolgono dati personali sui lavoratori e usano le informazioni per controllare la produttività, l’adesione ai “valori” dell’impresa, la vita extralavorativa dei lavoratori. Ad es. nel colloquio di lavoro ci sono quesiti volti a delineare un “profilo” generale del lavoratore, accanto alla sistematica ricerca di dati relativi allo stato di salute, alla propensione ad assumere sostanze, a preferenze culturali, convinzioni religiose, tendenze sessuali, attività sportive. Nel 2001 il “Sole 24 Ore“ ha pubblicato degli opuscoli dove si indica la necessità, per “conquistare un posto di lavoro” di “non passare inosservati”, “fare marketing di sé stessi”, “emergere sul mercato, essere vincenti nell’era della flessibilità”, “concepire sé stessi come prodotto/servizio”, “essere un marchio forte”, che ha a che fare con la personalità (introducendo colore, allegria, ottimismo, entusiasmo, anima…).
Il potere capitalistico vuole lavoratori
– che facciano self-branding, imprenditori di sé, totalmente adattabili e devoti alla religione del profitto, rinunciando alla propria soggettività;
– che, ai fini della valutazione, espongano l’anima, che è abitata anche da ciò che non è codificato dalla ragione.
Vuole penetrare in ciò che l’individuo esperisce come vita interiore o vita mentale, attribuzione di senso a un destino personale di vita, vuole quindi l’essere in totale soggezione, preso in una relazione di dipendenza personale. Vuole che il lavoratore abbia una personalità transitoria, cedevole, misurata sulle contingenze del mercato, per il quale la quantità è il metro dell’esistenza, bisogni e interessi sono fatti transitare in un unico sistema di calcolo razionale.
L’autoemancipazione proletaria con l’imporsi del diritto alla riservatezza ha ottenuto, almeno formalmente, un argine all’enorme ruolo delle tecnologie digitali nel monitoraggio della vita quotidiana (ad es. per pianificare il marketing delle imprese), nell’acquisizione incessante di informazioni attraverso la sorveglianza onnipresente, in una forma di società in cui diviene dominante la nuda vita del corpo-oggetto sempre in scena, costretto ad adeguarsi allo stress competitivo del mercato, regno dell’alienabilità di ognuno e di ogni cosa, del denaro, il nulla che muove tutto. Un argine nel passaggio dalla società disciplinare identificabile con quella taylorista-fordista a quella postfordista della sorveglianza (si pensi al progetto del Pentagono di una Total information awareness, progetto di una banca dati mondiale, per incrociare una valanga d’informazioni di ogni tipo, raccolte in tutto il mondo e per “tracciare” le persone in ogni momento), in cui il corpo sta divenendo “corpo elettronico”, sempre esposto e preso da una sorta di “guinzaglio elettronico” (videosorveglianza, telefonia cellulare, internet, chip inseribili in qualsiasi prodotto e nel corpo stesso) che lo predispone ad essere permanentemente seguito, localizzato, pronto a sottoporsi al potere di chi può disporre di lui.
Il diritto alla riservatezza, se non sostenuto dalla lotta di classe nel suo valore generale, sbiadisce di fronte al capitalismo postmoderno, che vuole mettere in produzione di valore la soggettività (disposizioni, facoltà, passioni) pienamente assoggettata, “motore mobile del capitale”, la sua neuroplasticità, estrarre valore a partire dall’essere, dalla forza vitale.