di Fosco Giannini
“Sarà Domenico Losurdo, nel suo saggio “Dopo il diluvio: ritorno a Marx?”, a stabilire un nesso tra le nette posizioni engelsiane volte alla necessità storica della violenza rivoluzionaria e alla necessità della presa del potere proletariato (e alla liceità della sua difesa con la forza) e il vasto tentativo di liquidare Engels”
Friedrich Engels nasce a Barmen (Germania) il 28 novembre del 1820 e muore a Londra il 5 agosto del 1895. Questo 5 agosto 2023 rappresenta, dunque, il 128esimo anniversario della sua morte. Non ci sarebbe bisogno, per rilanciare l’attualità del pensiero ed il lascito della forma – praxis di Engels, di ricorrenze. Tuttavia, nel silenzio raggelato entro il quale si è pietrificata la ricerca politico-teorica “marxista” italiana, anche la leva di una ricorrenza sarebbe utile al fine di riavviare uno studio profondo del grande pensiero rivoluzionario engelsiano, che un vasto fronte politico e filosofico (formatosi storicamente lungo l’asse dato dalle grandi forze socialdemocratiche e socialiste anti leniniste successive alla Seconda Guerra Mondiale e dalle aree di pensiero borghese progressista e di “sinistra”, passando per le varie fonti di pensiero “neo-marxista” che si sono – a volte perniciosamente – sviluppate, sino alla Scuola di Francoforte) ha invece prima ridotto a pensiero minore e “di spalla”, rispetto a Karl Marx, e poi “ossificato” e liquidato in un giudizio di “marxismo meccanicistico e determinismo positivista”.
Un giudizio, questo sul pensiero di Engels, storicamente e filosoficamente falso e inaccettabile che tuttavia ha colto l’obiettivo, non solo tra l’intellettualità borghese ma anche in tanta parte del “marxismo occidentale” (così come si sarebbe espresso Domenico Losurdo) di farsi “senso comune”. Ed è rispetto a ciò che sarebbe ancor più importante che fosse proprio il Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo” a promuovere, in questo 2023 (ed oltre il 2023) e coinvolgendo intellettuali e dirigenti marxisti e comunisti italiani e internazionali, un grande convegno di studio e un nuovo dibattito sul pensiero engelsiano.
Engels, figlio di un grande industriale tedesco proprietario di fabbriche tessili sia in Prussia che in Inghilterra, matura sin da giovane (anche a partire, naturalmente, dalla condizione operaia che ha direttamente sotto gli occhi) un pensiero fortemente critico verso i rapporti capitalistici di produzione e le sovrastrutture ideologiche capitalistiche che informano di sé gli interi rapporti sociali capitalistici.
Nel 1842 lascia la città natale di Barmen e si trasferisce a Manchester, con il compito di seguire l’azienda “Ermen & Engels” della quale il padre è comproprietario. Durante il viaggio si ferma a Colonia, alla redazione della “Rheinische Zeitung” e lì, per la prima volta, incontra Karl Marx. A Manchester, ove la rivoluzione industriale è in pieno sviluppo e il nuovo ordine capitalistico è in costruzione, Engels ha modo di mettere in forte relazione la propria analisi teorica dello sfruttamento capitalistico con la cruda realtà di fabbrica e sociale. Vive a contatto diretto con la classe operaia, studia incessantemente e profondamente (la sua cultura è definita da tutti, anche dai futuri suoi critici, enciclopedica). E scrive. Da Manchester invia ai Deutsch-französische Jahrbücher (Annali franco-tedeschi) che hanno come direttori Marx e Ruge, un breve saggio che anticipa l’intero pensiero marxista-engelsiano. Il titolo del saggio è “Lineamenti di una critica dell’economia politica”. In questo lavoro, Engels inizia a prendere nettamente le distanze dalla cultura illuminista e idealista, a distaccarsi dai giovani hegeliani per un primo approccio materialista. Engels mette a fuoco il fatto che le rivoluzioni borghesi del ’700 siano state segnate da una parzialità e da una unidirezionalità, opponendo “all’astratto spiritualismo un astratto «materialismo», alla monarchia la repubblica, al diritto divino il contratto sociale […] quel «materialismo» non ha attaccato il disprezzo e la mortificazione cristiana dell’uomo, ma si è limitato a opporre al dio cristiano la natura come assoluto; la politica non ha preso in esame i presupposti dello Stato in sé e per sé; all’economia non è venuto in mente di interrogarsi sulla legittimità della proprietà privata”.
La proprietà privata, dunque, già per questo Engels, non è natura né, tantomeno, è figlia di dio. E più avanti rafforzerà il concetto: “Come il capitale è stato separato dal lavoro, così ora il lavoro si scinde nuovamente; il prodotto del lavoro gli si contrappone, separato, come salario […]. Sopprimendo la proprietà privata cadrà anche quest’innaturale separazione, il lavoro diventa salario a sé stesso, mostrando il vero significato del lavoro alienato”. Engels, già qui, in questo saggio, è Marx senza ancora Marx, ma, per tenersi lontani da quella feroce critica ad Engels che sarebbe venuta anche dai neo marxisti della Scuola di Francoforte, anche Marx è già Engels senza ancora Engels. Con “Lineamenti di una critica dell’economia politica” Engels si colloca stabilmente, uscendo dall’idealismo, nel campo materialista e comunista. Un campo dove troverà Marx per quel lungo, fraterno (sappiamo come Engels decise, per rafforzare il fronte rivoluzionario, di liberare Marx dal lavoro, sostenendo economicamente lui e la sua famiglia affinché il pensiero del “Moro” divenisse il carro trainante della lotta anticapitalista) rapporto solidale – che Franz Mehring definì “un’amicizia senza pari” – che produrrà un formidabile pensiero marxiano-engelsiano dal quale usciranno opere decisive per la storia del movimento operaio, comunista e rivoluzionario, a partire da “ Il Manifesto del Partito Comunista”, pensato e firmato assieme, del 1848.
Nel 1845 esce, di Engels, un saggio (una sorta di reportage d’altissimo livello e contemporaneamente di grande e inedita profondità analitica) che farà scuola e si offrirà per sempre come uno spaccato terrificante e veritiero della vita proletaria della fase inglese vittoriana, quella della sanguinosa accumulazione capitalistica originaria. Il titolo dell’opera è “La condizione della classe operaia in Inghilterra”, un “racconto” dello sfruttamento operaio scritto con l’animo di un Charles Dickens ma con il cervello di un rivoluzionario materialista già ben oltre i giovani-hegeliani. Quando Engels pubblica “La condizione della classe operaia in Inghilterra” ha solo 24 anni ma è già pronto ad essere il sodale di Karl Marx e il compagno a pari merito della “coppia” che avrebbe fondato il marxismo scientifico e avrebbe molto contribuito a cambiare il mondo. Engels, già prima e poi dopo la pubblicazione de “Il Manifesto del Partito Comunista”, svolge un ruolo determinante, come dirigente politico e non solo come teorico, per la nascita e la costruzione del movimento marxista, socialista, operaio e comunista. Nel 1864 le sue capacità organizzative e di direzione politica, che si legano alla sua grande statura intellettuale e teorica, lo portano a divenire il capo politico della Prima Internazionale e, nel 1889, della Seconda Internazionale. Il suo aiuto finanziario è importante per la pubblicazione, nel 1867, del primo tomo de “Il Capitale” di Marx.
Nel 1874 lavorerà con Marx a “L’ideologia tedesca”. Affermarono i due: “Decidemmo di mettere in chiaro, in un lavoro comune, il contrasto tra il nostro modo di vedere e la concezione ideologica della filosofia tedesca, di fare i conti, in realtà, con la nostra anteriore coscienza filosofica. Il disegno venne realizzato nella forma di una critica alla filosofia posteriore a Hegel”. L’opera, benché non terminata (“lasciata, a causa di molti problemi, -come scrissero Marx ed Engels – alla roditrice critica dei topi”) fu poi pubblicata in Unione Sovietica nel 1932, rivelandosi un testo fondamentale, sul piano filosofico e su quello della filosofia della praxis, per il superamento dell’idealismo della sinistra hegeliana e la messa a punto della concezione del materialismo dialettico e storico. Un lavoro che anziché sfamare i topi roditori diviene centrale non solo nella determinazione del materialismo ma dello stesso costituirsi della filosofia moderna e quella a noi contemporanea. Nel 1867 Engels pubblica l’“Anti-Dühring”, scritto senza l’apporto di Marx, che darà il suo breve contributo al saggio solo in una successiva edizione. L’ “Anti-Dühring”, una serie di densi articoli, riuniti in un libro, che Engels scrive in polemica con il filosofo ed economista tedesco Karl Eugen Dühring (che stava espandendo la propria egemonia intellettuale su vaste aree della socialdemocrazia tedesca) è un’opera centrale nel lavoro generale di Engels. Sinteticamente: Dühring diviene (drammaticamente, sia per Engels che per Marx) punto di riferimento teorico all’interno della socialdemocrazia e tra il movimento operaio tedesco attraverso tesi caratterizzate da un positivismo materialistico e “ottimista” che fa strame, tra l’altro, dell’intera dialettica hegeliana. Engels “combatte” corpo a corpo con Dühring nell’intento di espellere il positivismo dalla cultura socialista e comunista, sostituendolo con il materialismo dialettico che prevede, tra l’altro, il recupero di parti della dialettica hegeliana, una volta che “l’Hegel che sta a testa in giù” è rovesciato e “rimesso sui propri piedi”. Engels, in altre parole, definisce un grave errore la totale cancellazione, da parte di Dühring, dell’intera dialettica hegeliana (una cancellazione funzionale all’assunzione del positivismo come totalità) ma, d’altra parte, recupera la dialettica hegeliana – ai fini di corroborare il materialismo dialettico – rovesciandola: laddove Hegel fa partire la dialettica dal pensiero puro, Engels la fa partire dalla concretezza tutta materiale dei fatti e del divenire storico. Anche a partire dall’opera engelsiana dell’“Anti-Dühring”, sarà, tra gli altri, Max Adler a definire Engels “colui che aveva completato il marxismo, avendo allargato l’opera di Marx, al di là della particolare forma economica in cui si era presentata, a concezione generale del mondo”.
E sarà Antonio Labriola a definire le tesi di Engels contro Dühring “un antidoto allo scolasticismo”, come sarà Lenin, già negli “Amici del popolo” (1894) a giudicare l’“Anti-Dühring” una “magnifica lezione”. Una lezione che poi Lenin riprenderà in toto in “Materialismo ed empiriocriticismo” (la più importante opera filosofica del capo dell’Ottobre) nella lotta teorica contro il neo-positivismo di Ernst Mach e Aleksandr Aleksandrovič Bogdanov. Nel materialismo dialettico gnoseologico che Lenin illustra in “Materialismo ed empiriocriticismo”, fortissima è la relazione con il materialismo dialettico espresso da Engels nell’ “Anti-Dühring. Si spiega anche a partire da ciò il rapporto ideologico che i detrattori di Engels stabiliranno tra il loro tentativo di ridimensionare Engels e dissociarlo da Marx e il loro abbandono del leninismo.
Morto Marx, nel 1883, Engels ne cura la pubblicazione de “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”; tra il 1885 e il 1894 ne pubblica il secondo e il terzo volume de “Il capitale” e lavora agli appunti di Marx per pubblicarli come “Teorie del plusvalore”, nel 1884.
Nel 1880 esce di Engels “L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza” ma soprattutto, nel 1883, esce, incompiuta, la “famigerata” (per i filosofi borghesi e antimaterialisti dell’epoca e poi per molti neo-marxisti occidentali del ’900) “La dialettica della natura”, opera a partire dalla quale si attacca e si attaccherà, in un futuro che giunge sino a noi, l’intero pensiero di Engels. Ne “La dialettica della natura” Engels giudica la natura non più come una sorta di divinità panteista in sé, ma come prodotto dell’interlocuzione dialettica con l’uomo e la storia. Ciò apparve a tutti i cultori della natura-dio e della natura come totalità che comprende in sé l’uomo, in una concezione dell’uomo come soggetto non autonomo ma subordinato alla natura stessa, come una bestemmia irripetibile. Eppure, l’introduzione, nel pensiero filosofico, di una concezione della natura come prodotto del rapporto uomo-natura e storia-natura, non porterebbe, anche in questi nostri giorni, a leggere la natura (l’attacco all’ambiente) anche attraverso una critica sociale e una critica del potere, rovesciando così le fragili e ambigue tesi di una Greta Thumberg e soprattutto dei suoi inventori mediatici, custodi – è facile capirlo-dello status quo capitalista?
Sta di fatto che, proprio a partire dalle tesi de “La dialettica della natura”, nella fase successiva alla Seconda Guerra Mondiale, iniziò a scatenarsi, partendo sia dalle casematte ideologiche borghesi che da quelle neo-marxiste essenzialmente antileniniste, un potente tentativo di sminuire l’intera opera di Engels, un tentativo che aveva come suoi moti speculari sia quello di ridurre Engels ad una semplice “spalla” di Marx che quello di dissociare bruscamente Engels da Marx.
Ma nell’incipit di un saggio del 1995 del filosofo marxista tedesco Hans Heinz Holz ( fortemente legato al nostro Domenico Losurdo e deceduto nel 2011), “Engels e il concetto di una visione scientifica del mondo”, si afferma: “Appartiene alla storia ideologica successiva alla Seconda Guerra Mondiale, alla storia del “revisionismo” interno al marxismo ed al fenomeno di un anti-marxismo pseudomarxista, il rimuovere – negandone l’importanza- l’opera di Engels dallo sviluppo della teoria marxista, ridurla a mera “volgarizzazione”, “semplificazione” o, addirittura, diffamarla in quanto stravolgimento “ontologizzante” delle genuine intenzione di Marx”.
E lucide ci appaiono, a proposito del tentativo di ridurre Engels, distaccandolo da Marx, le riflessioni sviluppate da Stefano Garroni nella sua prefazione al lavoro collettaneo “Engels cento anni dopo”, edito dalla Casa editrice “La Città del Sole” nel 1995. Scrive Garroni: “E’ in questa prospettiva (la prospettiva di marcare nettamente la distanza tra valenza scientifica del marxismo, cioè Marx, ed impegno a trarne conseguenze sul piano dell’azione storico-politica) che si collocano di solito i tentativi di sottolineare le dissonanze tra Marx ed Engels; tentativi che – non per caso- prendono l’avvio dalla contrapposizione di Marx ad Hegel (ad un autore, dunque, che inserisce l’azione, il movimento, il cambiamento al centro stesso della vicenda del pensiero), per concludersi, poi, col dissociare Marx da Lenin”.
E Garroni prosegue rimarcando il fatto che enfatizzare le dissonanze tra Marx ed Engels altro non serve, nell’essenza, che a ridurre lo stesso Marx ad un puro pensatore scientifico, senza spinta per la prassi e l’azione concretamente rivoluzionaria. Naturalmente, questo, è un titanico falso. Peraltro, come ha rimarcato il già citato Hans Heinz Holtz “I cosiddetti filosofi della prassi ed una certa critica critica di provenienza francofortese hanno molto insistito, nella loro essenziale pretesa di riportare Marx al criticismo dei giovani hegeliani, nel rimarcare come impossibile l’unità tra “l’immobile dogma engelsiano” e “l’aperta dialettica marxiana”. “Ma se questa affermazione fosse vera – nota Holtz – come sarebbe stato possibile che Marx, tra l’altro, accettasse pienamente, facendola propria, la recensione di Engels al suo, fondamentale, saggio “Per la critica dell’economia politica?”.
Una recensione, aggiungiamo noi, così densa da presentarsi come un’altra opera a sé, la quale attribuisce al saggio di Marx sia uno sfondo di dialettica hegeliana che il metodo filosofico della filosofia marxista.
Nei suoi scritti, Engels, ha sempre e chiaramente considerata necessaria e storicamente necessitata la violenza rivoluzionaria, senza la quale mai si potrebbe scardinare il sistema borghese. E così scrive ne “L’ideologia tedesca” (firmata anche da Marx ma scritta in gran parte dallo stesso Engels): “Nella misura in cui il proletariato accoglierà elementi socialisti e comunisti, le stragi, le vendette e il furore della rivoluzione diminuiranno. Per i suoi principi, il comunismo è al di sopra del conflitto tra borghesia e proletariato, giustificandolo storicamente nel presente, non per il futuro; esso sopprime tale conflitto ma riconosce, finché permane il conflitto di classe, che l’ostilità del proletariato verso i suoi oppressori è una necessità e rappresenta la leva più importante del movimento operaio al suo inizio; ma va oltre tale ostilità, perché il comunismo è la causa di tutta l’umanità, non solo della classe operaia”.
Sarà stata questa linea concreta (come la dichiarata necessità della dittatura del proletariato) a far scatenare contro Engels le ire dei filosofi borghesi e degli stessi neo-marxisti occidentali del ’900? Marx, peraltro, non era certo meno convinto di Engels della necessità della violenza rivoluzionaria e del pieno potere al proletariato e, anzi, solo nel pieno potere del proletariato, nella sua dittatura rivoluzionaria, Marx vedeva l’unica via per l’estirpazione dalla Storia di quello sfruttamento oggettivo dell’uomo sull’uomo che trova le sue basi materiali nei rapporti capitalistici di produzione e nella totale trasformazione dell’uomo e del suo lavoro in merce. Ma sta qui la formidabile astuzia della filosofia borghese e del marxismo revisionista: al contrario del “volgare” Engels del materialismo dialettico, il Marx del materialismo storico si poteva tentare di dividerlo da Engels in virtù della propria scienza, in virtù di quelle “rivelazioni” economiche oggettive (il plusvalore come segno innegabile dello sfruttamento capitalista) che potevano essere assunte anche dalle ali di sinistra della borghesia, nell’ottica della redistribuzione moderata del reddito e in quella, strategica, del mantenimento del potere borghese.
Sarà Domenico Losurdo, nel suo saggio “Dopo il diluvio: ritorno a Marx?”, a stabilire un nesso tra le nette posizioni engelsiane volte alla necessità storica della violenza rivoluzionaria e alla necessità della presa del potere proletariato (e alla liceità della sua difesa con la forza) e il vasto tentativo di liquidare Engels. Nel suo saggio, Losurdo, attraverso una lunga escursione storica che evochiamo solo nell’essenza estrema, dimostra la falsità e l’ipocrisia sia degli ideologi neo-liberali che di quelli del neo-marxismo occidentale, volti a definire le (sanguinosissime) rivoluzioni liberali e anglosassoni come fondate “sull’amore per la libertà” e le rivoluzioni di stampo giacobino-bolscevico tutte segnate dal culto del terrore.
Se pure dovessimo cedere alla rozzezza di una analisi che vede Engels come il delineatore primario della concezione del materialismo dialettico (che porta alla weltanschauung comunista) e Marx come delineatore primario della concezione del materialismo storico (che sostiene su di una base scientifica l’esigenza storica del comunismo), se pure accettassimo – e non l’accettiamo – questa volgarizzazione/banalizzazione, non potremmo comunque e in nessun modo ritenere razionale e plausibile il tentativo di dividere Engels da Marx. Per il semplice motivo che è l’insieme dinamico tra materialismo dialettico e materialismo storico a formare la teoria e la prassi della rivoluzione, lo stesso pensiero marxista. Il materialismo dialettico senza quello storico – e viceversa – sarebbero concezioni amputate e, da sole, non potrebbero sorreggere nessun processo rivoluzionario.
Scriveva Guido Oldrini nel suo saggio “Sul rapporto Marx-Engels in prospettiva”: “Come complesso dottrinale, come teoria, il marxismo ci si presenta sotto una doppia veste. Esso è, ad un tempo, teoria della storia (materialismo storico) e concezione generale del mondo, teoria filosofica (materialismo dialettico). Gyorgy Lukàcs ha sempre insistito con energia, specialmente nell’ “Estetica” e nell’”Ontologia”, sulla stretta unità esistente nel marxismo tra determinazioni teoriche e determinazioni storiche dei problemi, sull’inscindibilità in linea di principio che lega i problemi del materialismo storico a quelli del materialismo dialettico e sulla mutua e costante collaborazione che in ogni ricerca queste due branche della scienza si debbono apportare”.
Crediamo che anche a queste parole di Oldrini – uno studioso marxista che, peraltro, fa dell’antidogmatismo la propria stella polare – dobbiamo appellarci per respingere al mittente gli untuosi tentativi di dividere Marx da Engels, ricollocando Engels nello scranno più alto, quello che gli spetta, della rivoluzione.