L’impegno dei comunisti e il Socialismo del Secolo XXI

Una prospettiva di innovazione a partire dall’America Latina

di Gianmarco Pisa

Le vaste e tumultuose trasformazioni, che investono tanto il ruolo delle forze politiche e sociali di fronte alle sfide del tempo presente, quanto la sfera della produzione di cultura e di immaginario nel cui contesto sono veicolate le ideologie dominanti quali formazioni ideologiche della classe dominante, interrogano profondamente l’attuale “che fare?”: da un lato, l’esigenza di aggiornare e potenziare la strumentazione politica, la «cassetta degli attrezzi», dei comunisti e delle comuniste; dall’altro, il bisogno di estendere e rafforzare il consenso e la partecipazione nelle lotte e nelle mobilitazioni per la trasformazione sociale e politica.

La grande domanda storica: «per il pane e per la pace».

I termini intorno ai quali si svolge il conflitto nel tempo presente sono ormai ampiamente squadernati: senza alcuna intenzione di stabilire indebite e inopportune gerarchie di valore, risaltano, senza dubbio, la grande questione della lotta contro la guerra e per la pace, da declinare sempre più nel senso della lotta contro l’imperialismo, contro la guerra imperialista, e contro il militarismo e la militarizzazione, con la quale gli attori dominanti intendono puntellare l’edificio, sempre più instabile e malsicuro, e proprio per questo più aggressivo e minaccioso, del pensiero unico e del sistema unipolare; la non meno grande questione della lotta per la democrazia, sempre più sfidata da processi di crescente separatezza politico-istituzionale e di radicale polarizzazione socio-economica, dove peraltro lotta sociale e lotta democratica sempre più faticano ad affermare il proprio ruolo di motore del cambiamento; la questione, grande anch’essa, del lavoro, come centro di conflitto sociale e di lotta politica; come fattore di dignità, di soggettivazione e di avanzamento sociale; come vettore di rinvigorimento della qualità democratica; come elemento essenziale nel processo di riorientamento dell’innovazione scientifica e tecnologica e di salvaguardia dell’ambiente e dell’ecosistema.

Si sarebbe detto, in altri termini, il permanente ritorno di attualità della grande domanda storica di pane, pace e giustizia: «due questioni sono balzate in primo piano fra tutte le altre questioni politiche: la questione del pane e quella della pace. La guerra imperialistica, guerra fra le più grandi e più ricche compagnie … per il dominio del mondo, per la spartizione del bottino, per la spoliazione dei popoli piccoli e deboli, … ha devastato tutti i Paesi, ha esaurito e sfinito tutti i popoli, ha posto l’umanità di fronte al dilemma: o mandare in rovina tutta la civiltà e scomparire, o rovesciare per via rivoluzionaria il giogo del capitale, ribaltare il dominio della borghesia, conquistare il socialismo e una pace durevole. Se non vincerà il socialismo, la pace tra gli Stati capitalistici significherà soltanto un armistizio, una tregua, la preparazione ad un nuovo massacro dei popoli.

«Pace e pane: queste sono le rivendicazioni fondamentali degli operai e degli sfruttati. La guerra ha acuito al massimo grado queste rivendicazioni. La guerra ha votato alla fame i Paesi più civili, più sviluppati culturalmente. Ma, d’altra parte, la guerra, come enorme processo storico, ha affrettato in un modo mai visto in precedenza lo sviluppo sociale. Il capitalismo, sviluppatosi in imperialismo, cioè capitalismo monopolistico, si è trasformato, per effetto della guerra, in capitalismo monopolistico di Stato. Abbiamo ora raggiunto questo grado di sviluppo dell’economia mondiale che è il diretto preludio al socialismo» (V. I. U. Lenin, Per il pane e per la pace, scritto il 27 dicembre 1917, pubblicato nella “Jugend-Internationale”, n. 11, maggio 1918).

L’estrema, radicale, vitalità di questa riflessione di Lenin spinge a rintracciare alcune questioni essenziali per l’orientamento, l’iniziativa e la prospettiva dei comunisti e delle comuniste, specie in relazione allo scenario internazionale. Il riferimento a tale scenario e, con esso, una lettura corretta e un’interpretazione coerente della «dinamica di fase», restano una questione decisiva. Sullo sfondo della lotta contro la guerra e per la pace, contro le guerre dell’imperialismo, e per la pace con democrazia effettiva e giustizia sociale, si stagliano le resistenze e le lotte dei popoli che, ai quattro angoli del pianeta, avanzano nuove rivendicazioni sociali, affermano nuovi contenuti politici e culturali, segnalano l’apparizione di nuove generazioni e nuovi soggetti sul terreno della lotta, delineano elementi sui quali è necessario soffermarsi con attenzione, leggendone i segnali.

Se, come è noto, «la storia di ogni società esistita fino a questo momento è storia di lotte di classi», è non meno vero che proprio «sotto i nostri occhi, si svolge un moto analogo. I rapporti borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la società borghese moderna, che ha creato per incanto mezzi di produzione e di scambio così potenti, rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate. Sono decenni, ormai, che la storia dell’industria e del commercio è soltanto la storia della rivolta delle forze produttive moderne contro i rapporti moderni della produzione, cioè contro i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio» (Karl Marx, Friedrich Engels, Il Manifesto del Partito comunista, 1848). Non si tratta di una previsione astratta e velleitaria, ma della precisa e rigorosa individuazione della tendenza storica e politica: nell’attuale situazione di fase, essa segnala la centralità della lotta di classe e del conflitto sociale nella definizione della traiettoria e della prospettiva politica e riporta l’attenzione sul protagonismo della soggettività sociale e di classe nel processo di trasformazione.

Così, sulla scena internazionale, lotte di classe e movimenti popolari, variamente declinati di Paese in Paese, segnalano il ritorno di attualità della questione strategica delle «vie nazionali al socialismo», intesa come manifestazione della creatività dei processi di trasformazione e di aderenza alle specifiche condizioni nazionali. Nello scenario latino-americano, quella che oggi in Perù è la parola d’ordine della nuova Costituzione, sullo sfondo di una vasta mobilitazione popolare a sostegno del presidente legittimamente eletto, Pedro Castillo, e contro la violenta repressione da parte del governo golpista, espressione delle oligarchie locali e dell’imperialismo nord-americano, è stata nel recente passato, prima in Venezuela (tra il 1998 e il 2000), poi in Bolivia (tra il 2006 e il 2009), la medesima parola d’ordine di una nuova Costituzione con la quale formalizzare, da un lato, e dare nuovo impulso, dall’altro, alle conquiste sociali del processo rivoluzionario, bolivariano, in senso socialista, in Venezuela, plurinazionale, pure in senso socialista, in Bolivia.

Come ha ricordato recentemente (17 gennaio 2023) Camilo Rivero (Istituto venezuelano di pianificazione applicata, afferente al Ministero del potere popolare per la pianificazione), «il Venezuela ha inaugurato un periodo nuovo e trascendentale della sua storia repubblicana a partire dall’elezione a presidente del comandante Hugo Chávez nel 1998. Va ricordato che la sua principale proposta elettorale consisteva nel promuovere una Assemblea nazionale costituente, con l’obiettivo supremo di rifondare la Repubblica per stabilire una società «democratica, partecipativa e protagonistica» […]. Così, nella Costituzione bolivariana si stabilisce che il Venezuela passa dall’essere una democrazia rappresentativa convenzionale, tipica dello Stato liberale borghese, all’essere una democrazia partecipativa e protagonistica, nella quale il popolo è chiamato a diventare il soggetto storico fondamentale che assume la guida del processo politico ai fini della sua trasformazione rivoluzionaria.

«Lo «Stato democratico e sociale di diritto e di giustizia» sancito dalla Costituzione deve tenere conto di una realtà contrastante, per cui il governo deve stabilire le priorità necessarie per occuparsi della popolazione in condizioni di povertà, senza trascurare altri gruppi sociali che si trovano in una condizione socio-economica migliore. Ciò significa andare verso la creazione di un’amministrazione pubblica bolivariana […] con l’intenzione inequivocabile di incorporare organicamente le diverse espressioni del potere popolare organizzato nel governo bolivariano. In questo senso, la «pianificazione-azione» si presenta come strumento particolarmente potente per trasformare una realtà sociale diseguale, che richiede una rigorosa conoscenza scientifica della situazione e un efficace intervento deliberato per indirizzarla verso la società che vogliamo».

Dall’altra parte del mondo, nella Repubblica popolare cinese, gli esiti di grandissimo impatto del XX congresso del Partito comunista (16-22 ottobre 2022) non solo affermano la rinnovata centralità del marxismo e del leninismo (la dottrina di Marx ed Engels; il leninismo; il pensiero di Mao Zedong e la teoria di Deng Xiaoping), ma, in particolare, propongono il «socialismo con caratteristiche cinesi nella nuova era» come declinazione avanzata del socialismo del XXI secolo. Si tratta di una proposta, non una nuova ortodossia: «il marxismo è la ricchezza comune lasciata in eredità al proletariato mondiale da Marx ed Engels, e lo sviluppo del marxismo è la causa comune dei marxisti di tutto il mondo. Entrando in una nuova era, la Cina è diventata un altopiano teorico per lo sviluppo innovativo del marxismo nel XXI secolo […]. Allo stesso tempo, deve essere chiaro che la Cina non è affatto l’unica posizione del marxismo nel mondo nel XXI secolo.

«Il pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi nella nuova era è il marxismo del XXI secolo e ha un significato mondiale, ma questo non esclude o influenza i partiti marxisti di altri Paesi a sostenere e sviluppare il marxismo del XXI secolo a partire dalle loro concrete realtà nazionali. Il marxismo non è mai finito nella verità; Marx ed Engels non hanno mai fornito dogmi preconfezionati; e la vittoria del marxismo in diversi Paesi dipende dai marxisti di ogni Paese, che comprendono la concreta situazione specifica di ciascun Paese e risolvono i loro rispettivi problemi a partire dalla realtà dei loro Paesi.

«La causa iniziata da Marx ed Engels è un progetto per cambiare il mondo. Combinare le verità universali del marxismo con le realtà specifiche di ogni Paese è un processo senza fine, e la storia della localizzazione e della nazionalizzazione del marxismo non finirà» (He Yiting, Il pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per la nuova era è il marxismo del XXI secolo, 2020). Torna di estrema attualità, pertanto, la questione della esplorazione e della concretizzazione della transizione a partire dalle condizioni storiche concrete, specifiche, di ciascun Paese, in relazione alla propria storia e alle proprie caratteristiche. D’altra parte «l’avanzata verso il socialismo» è realizzata «dalla classe operaia guidata in modo diverso a seconda delle condizioni e delle particolarità economiche, politiche, nazionali e culturali di ciascun Paese», a partire dal «riconoscimento di principio delle diverse vie di sviluppo verso il socialismo» (P. Togliatti, VIII Congresso, 1956).

Su questi presupposti – le resistenze, le lotte e le rivendicazioni dei popoli ai quattro angoli del pianeta; la rinnovata attualità delle vie nazionali al socialismo; la vitalità del socialismo e la prospettiva del mondo multipolare – non si può eludere, ed è ulteriore questione aperta, la questione di una riflessione politica e di un bilancio storico, proiettato sul presente e sul futuro, nel quadro del movimento comunista internazionale, circa la crisi del marxismo occidentale. Laddove, infatti, in non poche parti del mondo processi di trasformazione avanzano in senso socialista, nel mondo occidentale ancora non si può ritenere conclusa la parabola della crisi.

Categorie calate nella storia: esigenza della ricomposizione e attualità dell’«imperialismo».

La riflessione sul marxismo in Occidente è aperta e dovrà essere ulteriormente approfondita; ma restano alcune indicazioni essenziali, in prospettiva, a partire, tra le altre, dalla riflessione che Domenico Losurdo ha consegnato alle pagine de Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere (2017), specie in relazione, tra i marxisti in Occidente, all’insufficiente attenzione verso la questione del potere; al mancato approfondimento del carattere non solo storico, ma anche dialettico, del materialismo, come pensiero-prassi della trasformazione generale; al mancato incontro del marxismo occidentale con il movimento anticoloniale; alle incertezze circa la categoria della «transizione»; alla necessità della storicizzazione della tesi della «estinzione» dello Stato «nell’attuale senso politico»; all’esigenza della ricalibratura, infine, della questione nazionale sulla base della ispirazione gramsciana e leniniana. Piste di lavoro, tracce di riflessione, su cui alimentare la ricerca storica e politica.

Ad essa si collega la questione cruciale del lavoro, del nuovo movimento operaio complessivo, della moderna composizione sociale e di classe. Qual è il moderno soggetto rivoluzionario, come si configura la soggettività di classe nelle società contemporanee a cosiddetto capitalismo avanzato, dove collocare oggi il centro del processo produttivo e del movimento della trasformazione? Alla definizione generale, in base alla quale il proletariato è la figura sociale agita dall’estrazione di plusvalore necessaria ai fini dell’accumulazione capitalistica, nelle moderne forme nella quale essa si svolge e si dispiega, è necessario accompagnare infatti contenuti e sostanza. «Il proletariato è la classe sociale che vive interamente della vendita del proprio lavoro e non trae profitto da alcun tipo di capitale; il cui bene e il cui male, la cui vita e la cui morte, la cui unica esistenza dipendono dalla domanda di lavoro – quindi, dal mutevole stato degli affari, dai capricci della concorrenza sfrenata. Il proletariato – o la classe dei proletari – è, in una parola, la classe operaia del XIX secolo» (Friedrich Engels, Principi del comunismo, 1847). 

«Il nostro uomo – sottolinea Marx – è un operaio salariato. Perciò deve vendere la sua forza-lavoro a un capitalista. Il saggio del plusvalore dipenderà, restando uguali tutte le altre circostanze, dal rapporto fra quella parte della giornata di lavoro necessaria per riprodurre il valore della forza-lavoro, e il tempo di lavoro supplementare o pluslavoro impiegato per il capitalista». I due termini esprimono, da un lato, la misura in cui la giornata di lavoro può essere prolungata oltre il tempo durante il quale l’operaio, per mezzo del suo lavoro, riproduce unicamente il valore della sua forza-lavoro, vale a dire fornisce l’equivalente del suo salario; dall’altro, la misura in cui la produttività del lavoro è incrementata, attraverso l’impiego di tecnologia sempre più avanzata, oltre la misura durante la quale l’operaio, per mezzo del suo lavoro, riproduce unicamente il valore della sua forza-lavoro.

Sono le figure, cioè, il cui lavoro è alienato e sfruttato; che subiscono la sottrazione del pluslavoro impiegato per il capitalista; che subiscono l’estrazione del plusvalore su cui si forma l’accumulazione; e che quindi concorrono alla produzione di valore in senso generale, non solo in termini di produzione industriale o materiale, ma anche in termini di produzione culturale e immateriale, in termini di valore espresso come quantità di «lavoro sociale necessario cristallizzato», incorporato nel contenuto prodotto (Karl Marx, Salario, prezzo e profitto, 1865).

Per riprendere, in questo senso, una recente elaborazione di Carlo Formenti, «oggi la stragrande maggioranza dei lavoratori di tale settore (programmatori, sviluppatori, web designer, etc.), sia che operino come autonomi (in catene di subfornitura caratterizzate da alti tassi di sfruttamento e feroce competizione fra poveri), sia come dipendenti dei colossi high tech, sono, a tutti gli effetti, operai come gli altri (cioè non dotati di alti livelli di comprensione del processo produttivo totale in cui operano come piccoli ingranaggi individuali).

«Viceversa, le minoranze di quadri inseriti in grandi imprese monopolistiche – come Amazon, Apple, Google, Facebook, Microsoft – sono, a tutti gli effetti, funzionari del capitale il cui ruolo consiste, similmente a quello degli ingegneri analisti dei sistemi nell’era taylorista, nello sviluppare modelli di governo, controllo e comando non solo sugli altri dipendenti d’impresa, ma anche sulle reti di forza-lavoro fintamente autonoma – vedi gli algoritmi che controllano il lavoro dei rider – dei consumatori e, più in generale, dell’insieme dei rapporti sociali. Oggettivamente sono proletari, soggettivamente no» (Carlo Formenti, Sulla composizione di classe. Composizione socioeconomica e composizione sociopolitica. Questioni di metodo, “Cumpanis”, 24 dicembre 2021).

Si tratta di una questione essenziale, dal momento che allude non solo alla configurazione del moderno proletariato, l’odierna composizione di classe, dentro l’attuale dinamica di sviluppo delle forze produttive, ma anche alla definizione di una politica delle alleanze sociali e di un rapporto con le figure proletarizzate e i ceti medi, nella prospettiva della rottura del circuito dell’alienazione e dell’espropriazione e, in definitiva, dell’individuazione di una moderna soggettività. Il marxismo, d’altra parte, in generale come socialismo scientifico e specificamente come materialismo storico e dialettico, è un pensiero-prassi della totalità, della ricomposizione generale e della trasformazione generale. «Cosa separava gli uomini? Gli uomini – ricorda Fidel Castro – sono stati separati dall’egoismo; gli uomini sono stati separati dall’ingiustizia; gli uomini sono stati separati dallo sfruttamento.

«Man mano che scompare l’ingiustizia, scompare lo sfruttamento, scompaiono gli abusi, scompaiono quegli ostacoli che separavano i nostri cittadini. Come si fanno strada la giustizia e l’uguaglianza, così si fanno strada anche la comprensione, l’amore e l’affetto tra tutti i cittadini del nostro Paese, quell’affetto che apre le porte di casa al contadino che non avevamo mai visto, o apre le porte di casa al vicino della capitale o delle grandi città che non avevamo mai visto nei nostri paesi» (Discorso di Fidel Castro in commemorazione del settimo anniversario del 26 Luglio, evento di avvio della Rivoluzione cubana, Las Mercedes, 1960).

Nel movimento di emancipazione latino-americano, il precedente è rappresentato senza dubbio dal “Libertador”, Simón Bolívar (1783-1830), e, in particolare, dalla sua opera più nota, la Carta di Jamaica (1815) che, per la prima volta, esprime il concetto della Patria Grande, dà forma alla tesi della confederazione plurinazionale latino-americana sulla base dell’emancipazione dei popoli e, quindi, dell’equilibrio del mondo a partire dalla solidarietà e dall’integrazione latino-americana. «Desidero più di ogni altro che in America si formi la più grande nazione del mondo, non tanto per la sua estensione e ricchezza quanto per la sua libertà e gloria. […] Per queste ragioni penso che gli americani ansiosi di pace, scienze, arti, commercio e agricoltura, preferirebbero le repubbliche ai regni. […] Le province americane stanno lottando per emanciparsi; alla fine ci riusciranno; alcune si costituiranno in repubbliche federali e centrali. […] È un’idea grandiosa cercare di formare da tutto il Nuovo Mondo un’unica nazione, con un unico vincolo, che leghi le sue parti tra loro e al tutto. Poiché ha un’unica origine, un’unica lingua, un unico costume e un’unica religione, dovrebbe avere un unico governo per confederare i diversi Stati; ma non è possibile, perché … situazioni diverse, interessi opposti … dividono l’America» (Carta di Jamaica, 1815).

Dopo la definizione della «dottrina Monroe» (1823), si viene formando, sulla falsariga del pensiero di Simón Bolívar e con numerosi apporti anche di ispirazione europeo-continentale e nord-americana, il pensiero di José Martí (1853-1895), che trova nel volume sulla Nostra America (1891), la sua formulazione più matura, per la solidarietà e l’indipendenza dei popoli dell’America Latina e contro il colonialismo e l’imperialismo prima della Spagna e poi degli Stati Uniti. Come ha ricordato Claudia Ferman, nel suo saggio dedicato ai “Mártires y sueños en Nuestra América: lecturas de un texto latinoamericano” (1991), sei sono i pilastri del pensiero martiano: l’antimperialismo, contro il pericolo che minaccia l’America Latina dal Nord; il panamericanismo, come unione dei popoli latino-americani; la difesa degli emarginati, il riconoscimento dello sfruttamento e dell’emarginazione dei popoli indigeni e del loro diritto ad essere presi in considerazione nel governo dei rispettivi Paesi; il pacifismo “universalista” come visione del bene comune dell’umanità nel suo insieme e rifiuto della violenza armata nella risoluzione dei conflitti; la modernizzazione, come cessazione e superamento del «villaggio coloniale»; e, non meno importante, la necessità di costruire uno strumento ideologico proprio, autonomo, diverso dalle formule e dalle soluzioni politiche, ideologiche e istituzionali delle potenze europee e degli Stati Uniti.

Lo scontro inter-imperialistico tra le potenze condanna l’Europa e il mondo, all’inizio del nuovo secolo, a un lungo ciclo di distruzione e di guerra: non poco significativo è il fatto che questa nuova dinamica, propriamente imperialistica, sia inaugurata, in particolare, proprio nel contesto dello scenario latino-americano, con la guerra ispano-americana (1898), considerata da Lenin, con estrema lucidità e profondo rigore storico-politico, la prima guerra imperialistica propriamente detta, con la quale l’imperialismo statunitense fa il proprio debutto come potere neocoloniale. Con la guerra, gli Stati Uniti impongono alla Spagna il riconoscimento dell’indipendenza di Cuba, da allora e sino alla rivoluzione vittoriosa nel 1959 una sorta di protettorato statunitense; la cessione di Porto Rico e di Guam agli Stati Uniti; l’occupazione di Manila nelle Filippine; l’acquisizione statunitense delle Isole Hawaii; e poi l’indipendenza limitata di Panama, nel 1903, con il controllo politico e il supporto militare degli Stati Uniti.

Su un altro scacchiere, nel quadrante mediterraneo, lo scontro tra il Regno d’Italia e l’Impero Ottomano e la guerra in Libia (la cosiddetta guerra italo-turca, 1911-1912), le due guerre balcaniche (1912-1913) e, diretta conseguenza di queste, la prima guerra mondiale (1914-1918), si configurano come vero e proprio ciclo di guerra imperialista e di scontro inter-imperialistico, da cui derivano l’analisi di Lenin sull’imperialismo («la concentrazione della produzione e del capitale …; la fusione del capitale bancario con il capitale industriale…; la grande importanza acquisita dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci; il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti…; la compiuta ripartizione della Terra tra le più grandi potenze capitalistiche») e quindi la parola d’ordine della «trasformazione della guerra imperialista in guerra civile» (1915) e l’attualizzazione del marxismo alla nuova realtà storica e politica. In questo crogiuolo storico-politico, si afferma propriamente il leninismo come «marxismo dell’epoca dell’imperialismo e della rivoluzione proletaria». 

«Il leninismo è il marxismo dell’epoca dell’imperialismo e della rivoluzione proletaria. Più esattamente: il leninismo è la teoria e la tattica della rivoluzione proletaria in generale, la teoria e la tattica della dittatura del proletariato in particolare. Marx ed Engels militarono nel periodo prerivoluzionario (ci riferiamo alla rivoluzione proletaria), quando l’imperialismo non si era ancora sviluppato, nel periodo di preparazione dei proletari alla rivoluzione, nel periodo in cui la rivoluzione proletaria non era ancora diventata una necessità pratica immediata. Lenin invece, discepolo di Marx e di Engels, militò nel periodo di pieno sviluppo dell’imperialismo, nel periodo dello scatenamento della rivoluzione proletaria, quando la rivoluzione proletaria aveva già trionfato in un Paese, aveva distrutto la democrazia borghese e aperto l’era della democrazia proletaria, l’era dei Soviet. Ecco perché il leninismo è lo sviluppo ulteriore del marxismo» (I. V. D. Stalin, Principi del leninismo, 1924).

La «Patria para todos» e i socialismi latino-americani in prospettiva emancipatoria. 

Alla fine del Novecento, con la cessazione dell’URSS e la fine dell’esperienza storica del socialismo sovietico, si passa dalla contrapposizione bipolare all’ordine unipolare imposto, non senza resistenze e contraddizioni, dagli Stati Uniti. L’attuale guerra in Ucraina (2014, tuttora in corso), che segna il ritorno drammatico, dopo le guerre balcaniche degli anni Novanta, della guerra nel cuore stesso dell’Europa, è la conseguenza di questi complessi sviluppi e delle profonde tensioni generate dall’unipolarismo statunitense sul territorio europeo, con l’espansione e l’avvicinamento sempre più incisivo dell’infrastruttura strategica e militare degli Stati Uniti e della Alleanza Atlantica ai confini della Federazione russa e con il progressivo assorbimento nell’orbita atlantica di Paesi già facenti parte dell’Unione Sovietica, tra cui l’Ucraina, o storicamente neutrali, quali la Svezia e la Finlandia.

La NATO vincola strategicamente i Paesi europei aderenti e la stessa Unione Europea al comando atlantico e agli Stati Uniti, come dimostra la recente Dichiarazione congiunta NATO-UE (Dichiarazione congiunta sulla cooperazione UE-NATO, 10 gennaio 2023), la quale afferma «l’importanza del legame transatlantico e richiede una più stretta cooperazione UE-NATO» (§ 7); dichiara che «la NATO e la UE svolgono ruoli complementari, coerenti e sinergici» (§ 9); e conferma la volontà strategica di «sviluppare ulteriormente il partenariato NATO-UE in stretta consultazione e cooperazione con tutti gli alleati della NATO e gli Stati membri della UE» (§ 13).

Tale schema rappresenta la più seria minaccia all’equilibrio del mondo e la più pesante opposizione a un ordine multilaterale, basato sulla cooperazione internazionale e l’uguaglianza sovrana tra le nazioni. È necessario, di conseguenza, lavorare, nel senso dell’alternativa, per un ordine di pace, giustizia e solidarietà internazionale che è, del resto, al centro della politica internazionale di Cuba, sulla scorta dell’eredità e dell’attualità della rivoluzione socialista, così come della politica internazionale del Venezuela bolivariano, prima con Hugo Chávez, quindi con Nicolás Maduro. Gli elementi marxiani, martiani e umanisti nel pensiero di Fidel Castro sono chiari e illuminanti.

Il Manifesto al popolo di Cuba (1955) è particolarmente ricco di riferimenti martiani e si ispira a una visione di «democrazia radicale» di orientamento socialista: «Continueremo, senza tregua, nella nostra linea rivoluzionaria. E una domanda a coloro che chiedono le elezioni generali come unica soluzione: cosa faranno se, come è probabile, Batista rifiuta categoricamente di concederle? Incroceranno le braccia per piangere ciò che non hanno avuto il coraggio di esigere con dignità? «I diritti si prendono, non si chiedono; sono conquistati, non implorati» […]. Un altro principio stabilisce che la sovranità risiede nel popolo e da esso emanano tutti i poteri; […] a chi accusa la rivoluzione di sconvolgere l’economia del Paese, rispondiamo: per i guajiros che non hanno terra non c’è economia; per il milione di cubani che sono senza lavoro non c’è economia; non c’è economia per i ferrovieri, i portuali, gli zuccherieri, i tessili, gli autisti e molti altri settori i cui salari sono stati spietatamente abbassati da Batista; e ci sarà, per tutti loro, solo attraverso una giusta rivoluzione che distribuirà la terra, mobiliterà le immense ricchezze del Paese ed eguaglierà le condizioni sociali ponendo fine al privilegio e allo sfruttamento […]. La pace che vuole Batista è quella che voleva la Spagna. La pace che noi vogliamo è la pace che voleva Martí».

Il Discorso di Fidel Castro ai lavoratori della Compañía Cubana de Teléfonos (6 marzo 1959) ribadisce il concetto di una «patria di tutti e tutte» e «per il bene di tutti e tutte»: «Libertà politiche, libertà sociali, libertà sindacali; il diritto al rispetto del cittadino nella sua integrità fisica, il diritto al rispetto come valore fondamentale della società; ma anche il diritto alla felicità; il diritto di acquisire una cultura, il diritto di guadagnarsi da vivere e di soddisfare il più ampiamente possibile i propri bisogni materiali; il diritto di ricevere i frutti della terra. Qui hanno insegnato a cantare un inno che dice che «morire per la propria patria è vivere», ma qui si muore e si è morto, tante volte, per una patria che non è di tutti, ma di pochi. E José Martí diceva che la patria è «di tutti e per il bene di tutti»; ma qui la patria è stata di pochi e per il bene di pochi».

La fondamentale Dichiarazione circa il carattere socialista della rivoluzione cubana (Proclamazione del carattere socialista della rivoluzione, 1961) asserisce, parafrasando Martí, «la rivoluzione socialista e democratica degli umili, con gli umili e per gli umili», tesi ribadita in più circostanze, e ancora in occasione del quarantesimo anniversario della proclamazione del carattere socialista della rivoluzione (2001), confermando che «senza il socialismo Cuba non sarebbe diventata un esempio […] e la portavoce, costante e leale, delle cause più giuste».

Infine, nel quindicesimo anniversario (1976) della vittoria di Playa Girón e della proclamazione del carattere socialista della rivoluzione, Fidel Castro ricordava che «l’esperienza mostra che, nonostante i mezzi favolosi al servizio della reazione, della sovversione e del crimine, l’imperialismo non può fermare la marcia vittoriosa dei popoli. Girón, Vietnam, Laos, Cambogia, Guinea-Bissau, Mozambico, Angola e altri esempi simili sono una prova inconfutabile di questa verità. […] Non esiste un’opera umana perfetta e nemmeno lo sono, naturalmente, le rivoluzioni, che sono fatte dagli uomini con i loro limiti e le loro imperfezioni. La marcia dell’umanità verso il futuro deve necessariamente conoscere esperienze dolorose; ma quel futuro appartiene ai princìpi, alla solidarietà rivoluzionaria tra i popoli, al socialismo, al marxismo-leninismo e all’internazionalismo». È appena il caso di sottolineare la potenza, visionaria, di questa riflessione nel delineare compiutamente una tendenza storica.

Le esperienze socialiste e le sperimentazioni dei comunisti e delle comuniste ai quattro angoli del pianeta continuano a parlare di democrazia, progresso, partecipazione, eguaglianza, giustizia sociale, diritti in tutte le loro generazioni, a partire dai diritti materiali (diritti economici e sociali), passando per i diritti di libertà (diritti civili e politici) e i diritti dei popoli e dell’ecosistema, fino ad arrivare alla sfera dei più recenti diritti digitali. Resta, aperto e attuale, il tema del socialismo: dell’organizzazione della proprietà statale dei mezzi fondamentali della produzione; della pianificazione e della programmazione economica nei suoi molteplici comparti in società sempre più dinamiche, articolate e complesse; dell’organizzazione della società e dell’affermazione dei lavoratori e delle lavoratrici alla direzione del Paese; della lotta contro l’imperialismo, per un ordine internazionale pacifico e giusto, e per un mondo sempre più policentrico e multipolare; delle grandi questioni della guerra e della pace; in una parola, del socialismo, con i suoi affinamenti e le sue attualizzazioni, come prospettiva di trasformazione. 

Una panoramica sulla spinta trasformatrice latino-americana.

Volgere lo sguardo al continente latino-americano consente di mettere a fuoco tutta la vivacità e l’importanza che questo grande contesto storico, politico, sociale, in un rilevante panorama culturale, istituzionale, strategico, rappresenta oggi sulla scena del mondo. In uno scenario, cioè, sempre più segnato dalla crisi del mondo unipolare, e, in particolare, dalla crescente difficoltà degli Stati Uniti ad affermare la propria leadership a livello mondiale e continuare a disegnare un mondo conforme al proprio indirizzo strategico, e, viceversa, sempre più attraversato dalla tendenza a promuovere un nuovo multilateralismo e a concretizzare un inedito «mondo multipolare», dove nuove contraddizioni emergono, nuove istanze si impongono e nuove soggettività si manifestano, l’esperienza politica e sociale che emerge dal continente latino-americano, dalla «Patria Grande» di Simón Bolívar e di José Martí, assume un significato di sempre più incisiva concretezza, di sempre più interessante rilevanza.

Basta uno sguardo per indicare la direzione del «corso progressista» nel subcontinente: il Nicaragua di Daniel Ortega; la Bolivia di Evo Morales, con Álvaro García Linera, e ora di Luis Arce; la Colombia di Gustavo Petro; l’Ecuador, relativamente all’esperienza della rivoluzione cittadina di Rafael Correa, con Jorge Glas e Ricardo Patiño; ora nuovamente il Brasile di Lula; quindi l’Argentina, prima con Cristina Kirchner e ora con Alberto Fernández; sino alla rivoluzione bolivariana in Venezuela, prima con il comandante Hugo Chávez e ora con il presidente Nicolás Maduro, e, punto di riferimento e stella polare del processo di trasformazione in senso complessivo, Cuba socialista, la Cuba della «Revolución», a partire dalla direzione rivoluzionaria di quel gigante del Novecento che è Fidel Castro, passando per Raúl Castro, sino all’attuale gruppo dirigente intorno a Miguel Díaz-Canel.

Se, dunque, dal punto di vista storico, la vicenda latino-americana rappresenta un’esperienza di lungo corso, che attesta un punto di riferimento essenziale e imprescindibile nel percorso di aggiornamento e di attualizzazione del marxismo e offre un esempio cruciale di resistenza e di avanzamento nella direzione di un «socialismo per il XXI secolo», non certo un modello universale, ma indubbiamente un’ispirazione potente nell’itinerario della trasformazione nel senso della democrazia effettiva, del protagonismo dei lavoratori e delle masse popolari, della dignità e della giustizia sociale, è non meno vero che, dal punto di vista politico, proprio dal contesto latino-americano sono giunti e giungono segnali di resistenza e di innovazione, ai quali è impossibile restare indifferenti.

Nel fare, come si è fatto poc’anzi, riferimento al dominio unipolare, alla rinnovata strategia dell’imperialismo, all’egemonismo statunitense, non si può prescindere dai contesti reali, dalla situazione del mondo nella quale tali coordinate si sono affermate. Il contesto internazionale degli anni Novanta del secolo scorso, dopo la fine dell’esperienza storica del socialismo sovietico, la cessazione dell’Unione Sovietica (1991), la liquidazione dei sistemi socialisti in Europa, la dissoluzione della Jugoslavia, il ciclo di guerra nei Balcani occidentali e, dunque, il ritorno, esteso e tragico, nel cuore stesso dell’Europa, della guerra, culminata con l’aggressione imperialistica degli Stati Uniti e della Alleanza Atlantica a ciò che restava della Federazione jugoslava (1999), è segnato infatti da alcune grandi tendenze che avrebbero rappresentato una vera e propria “cifra” del periodo storico.

La fine dell’esperienza sovietica, primo esempio di Stato socialista nella storia, punto di riferimento essenziale e imprescindibile nei processi rivoluzionari, nelle lotte per la libertà, l’indipendenza e l’emancipazione dal giogo coloniale nel Sud del mondo, nelle battaglie per la democrazia, i diritti del lavoro e la giustizia sociale nell’Occidente capitalistico, non solo priva il movimento operaio e democratico, a livello internazionale, di un punto di riferimento storico e strategico, pur con tutte le contraddizioni venute ad evidenza nel corso del tempo, ma lascia gli Stati Uniti soli ad esercitare, nel panorama internazionale e geopolitico, il ruolo di superpotenza globale, una funzione presunta di “leadership imperiale”, un compito autoassegnato di «gendarme del mondo».

Il capitalismo come sistema e modello e il neoliberalismo come pensiero unico e cornice ideologica paiono affermarsi in tutte le direzioni: lo sfondamento è tale che nel campo stesso della sinistra parlamentare si abbandona qualunque riferimento residuo al socialismo classico e alla giustizia sociale, per abbracciare le tesi della «terza via» (di Bill Clinton, Tony Blair, Gerhard Schröder, e delle varie declinazioni del centrosinistra anche italiano), l’orientamento neoliberale, il primato del mercato e la compiuta accettazione, per questa parte politica, del mercato e del capitalismo (eventualmente «moderato» o «temperato») come orizzonte esclusivo, chiuso, di riferimento.

Il mondo stesso viene radicalmente ridisegnato: a dispetto dei proclami e degli auspici a beneficiare, dopo la stagione della conflittualità bipolare, di un qualche «dividendo della pace», che si sarebbe dovuto manifestare con un rilancio del ruolo delle Nazioni Unite e una rinnovata definizione degli assetti e degli istituti di quello che si riteneva potesse essere un «governo democratico mondiale», si afferma, al contrario, il disegno statunitense del «nuovo ordine globale», a baricentro tra globalizzazione economica e aggressività imperialista. Gli Stati Uniti sono al centro di un sistema di «guerra permanente» di fatto: l’invasione di Panama (1989), la prima guerra in Iraq (1990-1991), la guerra in Somalia (1992), l’intervento in Bosnia Erzegovina (1994), poi ancora gli interventi in Afghanistan e in Sudan (1998), l’aggressione alla Jugoslavia (1999), sino al nuovo intervento nel Medio Oriente all’alba del nuovo millennio (2001), e una lunga scia di tentativi, non sempre riusciti, di destabilizzazione e di rovesciamento («regime change») di governi ritenuti ostili, ad esempio in Jugoslavia (2000), Georgia (2003), Ucraina (2004), Kirghizistan, Mongolia e Libano (2005), spesso, non a caso, nello spazio post-sovietico.

La strategia dell’imperialismo, che combina elementi di soft-power e hard power, alterna misure politiche, di condizionamento e di destabilizzazione, e misure militari, di pressione e di aggressione, e si fonda su un complesso militare-industriale tentacolare e su una spesa militare esorbitante: la spesa militare degli Stati Uniti è pari a 877 miliardi di dollari nel 2022, quasi il 40% della spesa militare globale totale, pari a tre volte la spesa militare della Cina e dieci volte la spesa militare della Russia. Tale strategia è stata oggetto, recentemente, di un significativo rapporto del National Computer Virus Emergency Response Centre della Repubblica Popolare Cinese (4 maggio 2023) che ha individuato ben cinquanta casi di “rivoluzione colorata” o tentativi di destabilizzazione messi in atto dagli Stati Uniti dal 1989 ed elencato le cinque principali strategie di destabilizzazione adottate dall’imperialismo: la fornitura di servizi di comunicazione di rete crittografati; la fornitura di servizi di comunicazione offline; la fornitura di strumenti di controllo online delle manifestazioni basati su internet e le comunicazioni wireless; la fornitura di software dedicati (anche capaci di supportare rete a banda larga totalmente indipendente); la fornitura di sistemi di informazione e di comunicazione cosiddetti “anticensura”, capaci di eludere controlli istituzionali.

Sul piano militare, proprio nel contesto della guerra in Europa, nella seconda metà degli anni Novanta, la NATO ridefinisce il proprio concetto strategico ed espande la propria presenza militare sino ai confini della Federazione russa. Con la ridefinizione del concetto strategico, con il Consiglio Atlantico di Washington (23-25 aprile 1999) nel pieno della guerra di aggressione alla Jugoslavia, si stabilisce per la prima volta che «il principio dell’impegno collettivo nella difesa dell’Alleanza si sostanzia in intese concrete che mettono gli Alleati in condizione di godere dei sostanziali vantaggi politici, militari e di risorse della difesa collettiva […]. Queste intese mettono altresì le forze della NATO in condizione di portare avanti operazioni di intervento in caso di crisi non previste dall’art. 5 (del Trattato) e costituiscono un prerequisito per una risposta coerente dell’Alleanza a tutte le possibili evenienze».

La NATO diventa così un vero e proprio attore militare globale che si autoattribuisce facoltà di intervento e di aggressione ovunque nel mondo, sotto la direzione degli Stati Uniti. La stessa composizione istituzionale, per servire questo rinnovato quadro strategico, si modifica profondamente: la presenza della NATO si espande a quasi tutta l’Europa, con l’unificazione tedesca e il territorio della ex Germania democratica (DDR) entrato a far parte della NATO sin dal 1990, e poi ancora Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca (1999), la messa in pratica della «ingerenza umanitaria» in Kosovo (1999), e quindi Estonia, Lettonia, Lituania, Slovenia, Slovacchia, Bulgaria e Romania (2004), Albania e Croazia (2009), Montenegro (2017) e Macedonia del Nord (2020). Questa presenza non è indifferente all’America Latina, dove si contano ben settantasei basi militari statunitensi, in Cile, Colombia, Costa Rica, El Salvador, Honduras, Perù, oltre alla vergognosa base di Guantanamo, a Cuba. 

È proprio nella dinamica del nuovo ordine globale e nella fase storica degli anni Novanta, e cioè nelle modalità e nelle ambizioni dell’imperialismo nella sua odierna declinazione (primato del capitale finanziario, tendenza del capitale alla concentrazione monopolistica, acquisizione di nuovi mercati e sfere di influenza, egemonismo e guerra), che affondano i presupposti dell’attuale configurazione: la piattaforma di Carbis Bay del G7 (2021), ad esempio, prospetta, ancora attraverso l’utilizzo degli strumenti del soft power e dell’hard power, la minaccia della creazione di un «rules-based world order», vale a dire di un ambiguo «ordine mondiale basato sulle regole» nel quale i principi della Carta delle Nazioni Unite sono sostanzialmente obliterati; ma anche il rinnovato sistema militare progettato in chiave anti-cinese, con l’AUKUS, composto da Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia, e il QUAD, il Quadrilateral Security Dialogue, che dovrebbe prefigurare un compact militare analogo alla NATO nella regione indo-pacifica. Anche in questo scenario, l’America Latina riveste un interesse strategico: Colombia, Perù e Honduras ospitano il numero maggiore di basi statunitensi; Porto Rico è ancora di fatto una colonia degli Stati Uniti; e la NATO è tuttora presente nelle Isole Malvinas, occupate dalla Gran Bretagna sin dal 1833. 

A fronte di questo panorama, è molto significativo il fatto che la prima, tra le più rilevanti, in ordine di tempo, reazioni a questo stato di cose, a questo rinnovato disegno imperialista, venga proprio dall’America Latina; è non meno significativo, poi, che non si sia trattato di una reazione isolata, bensì dell’innesco di un processo sociale e politico di lungo periodo, tuttora, pur avendo attraversato fasi alterne e battute d’arresto, in svolgimento e in evoluzione. In Venezuela, il “Caracazo”, la sollevazione dei lavoratori e delle masse popolari, prima nella capitale, Caracas, poi in tutto il Paese, il 27 febbraio 1989, contro il carovita e le misure di «aggiustamento strutturale» imposte, sulla pelle del popolo, dal Fondo Monetario Internazionale, sarebbe stato il presupposto della successiva sollevazione civico-militare promossa dal movimento rivoluzionario bolivariano il 4 febbraio 1992, che, a propria volta, avrebbe costituito lo sfondo storico-politico della vittoria del comandante Hugo Chávez, con il Movimento per la Quinta Repubblica, il 6 dicembre 1998, e quindi del processo rivoluzionario bolivariano e socialista.

In quello stesso periodo, l’«insorgenza zapatista», vale a dire la sollevazione dell’EZLN (Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale), in Messico, prende la scena il 1 gennaio 1994, proprio nel giorno dell’entrata in vigore del NAFTA, l’accordo di libero scambio del Nord America tra Stati Uniti, Canada e Messico, con il quale gli Stati Uniti venivano ad imporre il proprio ruolo dominante nei rapporti economici e commerciali dell’intera regione. La sollevazione zapatista, con il subcomandante Marcos, giungeva esattamente a rivendicare, contro il disegno imperialista, autodeterminazione, giustizia e democrazia per tutti i popoli e tutte le comunità del Messico, e muoveva la lotta come «l’unica strada per non morire di fame davanti all’insaziabile ambizione di una dittatura di più di settanta anni, guidata da una cricca di traditori che rappresenta i gruppi più conservatori e venduti».

Nella storica Prima dichiarazione della Selva Lacandona (dicembre 1993), il movimento zapatista si presenta come «il prodotto di cinquecento anni di lotte: prima contro la schiavitù, poi, durante la Guerra di Indipendenza contro la Spagna capeggiata dai ribelli, poi per evitare di essere assorbiti dall’espansionismo nordamericano; poi ancora per promulgare la nostra costituzione ed espellere l’Impero Francese dalla nostra terra; poi la dittatura di Porfirio Diaz ci negò la giusta applicazione delle Leggi di Riforma; il popolo si ribellò ed emersero i suoi leader, come Pancho Villa ed Emiliano Zapata, povera gente proprio come noi, ai quali, come noi, è stata negata la più elementare preparazione. Così possono usarci come carne da cannone e saccheggiare le risorse della nostra patria; e non importa loro che stiamo morendo di fame e di malattie curabili, e non importa loro che non abbiamo nulla, assolutamente nulla, neppure un tetto degno, né terra, né lavoro, né assistenza sanitaria, né cibo, né istruzione, che neppure abbiamo diritto di eleggere liberamente e democraticamente i nostri rappresentanti politici; né vi è indipendenza dallo straniero, né vi è pace e giustizia per noi e per i nostri figli. Pero nosotros hoy decimos ¡basta!». 

Esattamente dieci anni dopo, nel 2004, fu sancito il fallimento dell’altro progetto statunitense, l’ALCA, la zona di libero scambio delle Americhe, letteralmente scalzata dalla fondazione dell’ALBA, l’Alleanza bolivariana per i popoli della Nostra America, su iniziativa della Cuba socialista di Fidel Castro e del Venezuela bolivariano di Hugo Chávez. A questo progetto strategico avrebbe poi fatto seguito la CELAC, la Comunità degli Stati dell’America Latina e dei Caraibi, costituita a Caracas nel 2011, ora composta da trentatré Paesi dell’intero subcontinente, che incarna i principi dell’eguaglianza sovrana tra gli Stati membri e della «cooperazione reciproca e solidaria».

Se dunque si volge lo sguardo alla cadenza e alla dinamica di tale evoluzione complessiva, storica e politica, si vede all’opera una tendenza essenziale: la definizione e la costruzione di un progetto politico e strategico basato sulle istanze e sui bisogni dei lavoratori e delle masse popolari. Per un verso, un laboratorio politico istituito in una profonda, costante e continua, gramsciana, «connessione sentimentale» con le masse popolari; per l’altro, una sperimentazione politica impostata a partire dalla base sociale, fondata sulla dignità del popolo, orientata dalle istanze e dai diritti dei popoli, tesa a recuperare dignità e sovranità. Si trattava, da una parte, di costruire una rinnovata «forza egemonica», nel senso dell’emancipazione e del protagonismo delle masse; dall’altra, di sottrarre l’America Latina alla tradizionale configurazione di «patio trasero», una sorta di cortile di casa cui l’imperialismo nord-americano, sin dai tempi dell’affermazione della dottrina Monroe (1823), aveva preteso di relegarla.

È proprio tale connessione il “laboratorio” in cui si sperimentano non solo inediti processi di partecipazione e mobilitazione ma anche innovative soluzioni politiche: il processo di trasformazione complessiva che investe l’America Latina costituisce anche, infatti, un potente avanzamento dell’innovazione stessa del socialismo nel senso del «socialismo del XXI secolo», come moderna declinazione del tema delle «vie nazionali al socialismo», basata sul marxismo e il leninismo e sulle caratteristiche e le peculiarità dei rispettivi contesti storici e nazionali. Come disse lo stesso Hugo Chávez, del resto, non un “socialismo democratico”, ma una “democrazia socialista”, basata su tre connotati, la «democrazia partecipativa e protagonistica», la trasformazione generale della società e dello Stato, e il profondo cambiamento nella struttura economica e produttiva: «Il socialismo intende collocarci in un ambito di uguaglianza nella società. Perché anche se nasciamo disuguali e diversi – non siamo automi, né siamo robot per essere identici – poi arrivano le leggi, diceva Simón Bolívar, le arti, la conoscenza, l’istruzione, la cultura, l’industria, e ci collocano in un clima di uguaglianza delle condizioni di vita (H. Chávez, 2009).

«Solo attraverso il socialismo si ha un vero cambiamento, e la rivoluzione in America Latina ha tutto, e ha una carica profondamente socialista. È un socialismo indo-americano, come diceva José Carlos Mariátegui, il grande pensatore peruviano; è il nostro socialismo americano, un socialismo martiano, un socialismo bolivariano, un socialismo nuovo. Né calco né copia di nulla. Non ci sono cataloghi per il socialismo, bisogna inventarlo; il socialismo è una creazione eroica, dice lo stesso Mariátegui (H. Chávez, 2009)». È fin troppo evidente, in questa citazione chavista, il riferimento alla nota espressione di Karl Marx, con la quale il filosofo di Treviri si rifiutava di «prescrivere ricette … per l’osteria dell’avvenire», rivendicando, al contrario, la sostanza della dialettica, in quanto «nella comprensione positiva dello stato di cose esistente include simultaneamente anche la comprensione della negazione di esso, la comprensione del suo necessario tramonto, perché concepisce ogni forma divenuta nel fluire del movimento, quindi anche dal suo lato transeunte, perché nulla la può intimidire ed essa è critica e rivoluzionaria per essenza» (K. Marx, Poscritto alla seconda edizione del Libro I del Capitale, 1873). La rivoluzione, quindi, come processo, intrinsecamente dialettico, di trasformazione. Ancora con Fidel Castro, d’altra parte, «dire che la Rivoluzione è socialista significa che la Rivoluzione avanza verso un regime economico e sociale socialista, dove non esiste lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo» (F. Castro, 1961).

I processi rivoluzionari e di trasformazione in America Latina: tre elementi.

Le rivoluzioni e i processi di trasformazione sociale in America Latina rappresentano, senza dubbio, alcuni tra i principali fenomeni storici e politici del panorama internazionale a cavallo tra il XX e il XXI secolo e, più da vicino, uno dei maggiori contesti di ideazione e maturazione del «socialismo del XXI secolo». Quali sono, dunque, i tratti salienti di questa esperienza, quali gli elementi intorno ai quali costruire un’elaborazione significativa anche ai fini della costruzione di un pensiero e di una prassi per un socialismo all’altezza delle sfide del nostro tempo? Tra i tanti, risaltano tre elementi su cui più da vicino può essere utile concentrare la riflessione. In primo luogo, non è banale né scontato osservare che le rivoluzioni e le grandi trasformazioni sociali in America Latina rappresentano un progetto di trasformazione di lungo periodo, dipanandosi per vari decenni sino a tutt’oggi.

Basti considerare, a Cuba, dopo l’avvio del processo rivoluzionario nel 1953, la vittoria della Revolución nel 1959, la proclamazione del carattere socialista della rivoluzione stessa nel 1961 e quindi gli sviluppi storici successivi, la strenua difesa delle conquiste rivoluzionarie nel pieno del «periodo especial» a cavallo tra il 1990 e il 1997 e, in particolare, nella sua fase più dura, tra il 1991 e il 1995, e, al tempo stesso, l’innovazione del progetto socialista, che è andata avanti per tutti gli anni Novanta e Duemila, e che continua anche a seguito della riforma costituzionale del 2019. La stessa nuova Costituzione socialista del 2019 è considerata un punto di riferimento nel progetto, insieme, di consolidamento, di aggiornamento e di innovazione del socialismo.

Così, in base all’art. 1, Cuba è «uno Stato socialista di diritto e di giustizia sociale, democratico, indipendente e sovrano, organizzato con tutti e per il bene di tutti come repubblica unitaria e indivisibile, fondata sul lavoro, sulla dignità, sull’umanità e sull’etica, per il godimento della libertà, della uguaglianza, della solidarietà, del benessere e della prosperità individuale e collettiva». In base all’art. 5, il Partito comunista di Cuba, martiano, fidelista, marxista e leninista, avanguardia organizzata della nazione cubana, basato sul carattere democratico e sul legame permanente con il popolo, è «la forza politica dirigente principale della società e dello Stato. Organizza e orienta gli sforzi comuni nella costruzione del socialismo e nell’avanzata verso la società comunista».

Inoltre, in base all’art. 18, a Cuba vige «un sistema di economia socialista basato sulla proprietà di tutto il popolo sui mezzi di produzione fondamentali, come forma principale di proprietà, e sull’indirizzo pianificato dell’economia, che tiene conto, regola e controlla il mercato in funzione degli interessi della società». Il carattere organizzato e pianificato dell’economia socialista resta centrale, in quanto (art. 19) «la pianificazione socialista costituisce la componente centrale del sistema di direzione dello sviluppo economico e sociale. La sua funzione essenziale è quella di progettare e guidare lo sviluppo strategico». Lo Stato è l’attore economico fondamentale dal momento che (art. 19) «dirige, regola e controlla l’attività economica, conciliando gli interessi nazionali, territoriali, collettivi e individuali a beneficio della società». L’attività privata è riconosciuta come componente significativa, ma complementare e subordinata, dell’attività economica e produttiva generale, in quanto (art. 22) «si esercita su determinati mezzi di produzione […] con un ruolo complementare nell’economia».

In un altro contesto storico e politico, il processo rivoluzionario in Venezuela, le cui coordinate essenziali sono definite dal bolivarismo, dall’antimperialismo e dal socialismo, basti richiamare gli esiti del “Caracazo” del 27 febbraio 1989, la sollevazione civico-militare promossa dal movimento rivoluzionario bolivariano del 4 febbraio 1992, la vittoria del comandante Hugo Chávez, con il Movimento per la Quinta Repubblica, del 6 dicembre 1998, e le successive vittorie presidenziali del 2000, 2006 e 2012, la nuova Costituzione bolivariana del 1999 (2000), lo sviluppo, in senso socialista, del processo bolivariano a partire dal 2004, la successiva presidenza Maduro a partire dal 2013, quali tappe fondamentali di una dinamica che ha saputo, con originalità, creatività e spirito di innovazione, coniugare l’orientamento in senso socialista della trasformazione della società e dello Stato con l’innesco di una dinamica di massa nel senso di una vera e propria «democrazia partecipativa e protagonistica».

Anche in questo caso, è la nuova Costituzione, la Costituzione bolivariana del 1999 (2000), a rappresentare uno dei conseguimenti più incisivi di questo processo. In base all’art. 2 della nuova Costituzione, infatti, «la Repubblica Bolivariana del Venezuela si costituisce come Stato democratico e sociale di diritto e di giustizia, che sostiene, come valori superiori del proprio ordinamento e della propria attività, la vita, la libertà, la giustizia, l’uguaglianza, la solidarietà, la democrazia, … la preminenza dei diritti umani, l’etica e il pluralismo». L’attività economica è regolata dal Titolo VI, in base al quale (art. 299) «il sistema socio-economico della Repubblica Bolivariana del Venezuela si basa sui principi di giustizia sociale, democrazia, efficienza, libera concorrenza, tutela dell’ambiente, produttività e solidarietà, al fine di assicurare lo sviluppo umano integrale e un’esistenza dignitosa e proficua per la collettività». In particolare (art. 302), «lo Stato si riserva, attraverso la pertinente legge organica e per ragioni di convenienza nazionale, l’attività petrolifera e altre industrie, sfruttamenti, beni e servizi di interesse pubblico e di natura strategica»; l’attività economica privata è libera (art. 112) «senza limitazioni che non siano quelle previste dalla Costituzione nonché quelle stabilite dalla legge, per ragioni di sviluppo umano, sicurezza, salute, protezione dell’ambiente o altre ragioni di interesse sociale».

In Nicaragua, la portata storica del sandinismo, che trae la propria ispirazione ideale e il proprio precedente storico-politico nella figura di Augusto César Sandino (1893-1934), è segnata dai due cicli storici del Fronte sandinista di liberazione nazionale, il primo tra il 1979 e il 1990, dopo la storica vittoria della rivoluzione sandinista del 19 luglio 1979 e l’avvio della trasformazione in senso socialista della società e dello Stato, sotto la guida di Daniel Ortega, con un programma di «sviluppo integrale», nazionalizzazione delle proprietà straniere, sviluppo di progetti e di produzione rurale a livello locale, partecipazione dei lavoratori nella nuova struttura economica, sviluppo dello stato sociale; e il secondo con le quattro vittorie presidenziali di Ortega del 2006, 2011, 2016 e 2021, il consolidamento delle relazioni con Cuba e Venezuela e il rilancio della prospettiva antimperialista.

Anche in questo contesto, nelle sue specificità e peculiarità, l’orientamento socialista e la prospettiva anti-imperialista reciprocamente si coniugano e si rafforzano. Come ha recentemente indicato Fabrizio Casari (28 aprile 2023), «il Nicaragua, forte dell’appartenenza a consorzi di spessore planetario, assume su di sé una proiezione completamente diversa da quella tenuta fino al 2006. Pur mantenendo e rafforzando il suo peculiare modello produttivo, fondato sulle imprese piccole e medie e sull’economia di carattere familiare, che garantiscono l’orizzontalità della crescita economica, vede una sostanziale modifica della sua dimensione politica e finanziaria, che si riflette tanto nell’ambito regionale quanto in quello internazionale. Si candida ad un ruolo di primissimo piano nell’equilibrio regionale e di grande rilievo nel complesso continentale».

In Bolivia, le tappe cruciali sono segnate dalla vittoria del Movimiento al Socialismo (MAS) alle elezioni presidenziali del 2005 e l’elezione a presidente della repubblica di Evo Morales, con un percorso storico che va dal 2005 al 2019 e, dopo il colpo di stato del 2019, la nuova vittoria alle elezioni presidenziali del MAS del 2020, con l’elezione a presidente di Luis Arce. Anche in questo caso, dunque, non solo un programma di trasformazione economica e sociale, ma anche di innovazione politica e istituzionale, analogamente mostrata dalla nuova Costituzione della Bolivia (2009) che si costituisce per la prima volta come “Stato plurinazionale” su tre principi fondamentali, segnalati dai primi tre articoli della nuova Costituzione. In base all’art. 1, la Bolivia è costituita come Stato sociale plurinazionale unitario, libero, indipendente, sovrano, democratico, pluriculturale.

«La Bolivia si fonda sulla pluralità e sul pluralismo politico, economico, giuridico, culturale e linguistico, nel quadro del processo di integrazione del Paese». In base all’art. 2, «data l’esistenza precoloniale delle nazioni e dei popoli nativi indigeni e il loro governo ancestrale sui loro territori, è garantita, nel quadro dell’unità dello Stato, la loro autodeterminazione in relazione al loro governo, alla loro cultura, al riconoscimento delle loro istituzioni e al consolidamento delle loro entità territoriali». Infine, in base all’art. 3, «la nazione boliviana è costituita dalla totalità degli uomini e delle donne boliviani e boliviane, delle nazioni e dei popoli indigeni autoctoni e delle comunità interculturali e afrodiscendenti che, come insieme, costituiscono il popolo boliviano».

In Ecuador il processo di trasformazione si è venuto configurando attraverso la forma politica della “Revolución Ciudadana” (Rivoluzione cittadina) ed è venuto a coincidere con il ciclo presidenziale di Rafael Correa, attraverso i suoi tre mandati presidenziali consecutivi, inaugurati rispettivamente nel 2007, nel 2009 e nel 2013, segnando un ciclo decennale (2007-2017). Nella sua forma politica generale, la Revolución Ciudadana ha rappresentato la specifica declinazione ecuadoriana del socialismo del XXI secolo, iscrivendo la presidenza Correa nel ciclo di trasformazione generale in senso progressista e nel solco del generale avanzamento delle condizioni materiali di esistenza e di soddisfacimento dei bisogni sociali delle larghe masse della popolazione che ha contraddistinto, come “cifra” politica, il percorso complessivo di trasformazione nel subcontinente latino-americano.

In questa peculiare declinazione nazionale, configurandosi come «socialismo del buen vivir» (socialismo della vita degna), la Revolución Ciudadana ha perseguito l’obiettivo di «concretizzare e radicalizzare il progetto di cambiamento per la costruzione di uno Stato plurinazionale e interculturale e, infine, per il raggiungimento una vita degna per tutti gli ecuadoriani, attraverso un processo di pianificazione che permetta di migliorare le condizioni di vita, per fornire strade, porti, ospedali, aziende pubbliche, che lavorino al servizio del Paese».

Anche in Ecuador, il progetto di trasformazione è stato codificato in una nuova Costituzione, la quale, varata nel 2008 e poi modificata, in chiave regressiva, dopo la fine del governo di Rafael Correa, ha riconfigurato l’Ecuador (art. 1) in forma di «Stato costituzionale di diritto e giustizia sociale, democratico, sovrano, indipendente, unitario, interculturale, plurinazionale, laico. È organizzato in forma di Repubblica ed è governato in maniera decentrata. La sovranità risiede nel popolo, la cui volontà è il fondamento dell’autorità, e si esercita attraverso gli organi del potere pubblico e nelle forme di partecipazione diretta previste dalla Costituzione. Tutte le risorse naturali non rinnovabili dello Stato costituiscono suo patrimonio inalienabile, irrinunciabile e imprescrittibile».

Le finalità della Revolución Ciudadana sono state sintetizzate da Ricardo Patiño, economista e politico, già Cancelliere (Ministro degli Esteri) dell’Ecuador, con Rafael Correa, dal 2010 al 2016: «La Revolución Ciudadana, guidata da Rafael Correa, era un progetto di sviluppo nazionale, endogeno, sovrano, volto a far crescere l’economia in modo decentralizzato. Un modello di crescita unito al benessere generale della popolazione per costruire equità e con il maggior decentramento possibile dei benefici dello sviluppo. Ciò si basa sulla supremazia dell’essere umano sul capitale. […] Un modello che definirei come il primo passo di una società socialista.

«Sappiamo tutti che la costruzione di una società socialista a partire dal capitalismo è un processo a lungo termine. Il socialismo non si decreta, ma si costruisce a poco a poco, e uno degli elementi per questa costruzione è lo sviluppo delle forze produttive, la costruzione della democrazia reale, il rafforzamento della democrazia partecipativa e del benessere generale. Se tutto questo non è abbastanza avanzato, non c’è modo di costruire una società socialista. Per questo abbiamo definito il nostro progetto “socialismo del XXI secolo”» (Geraldina Colotti, “La rinascita dell’Ecuador passa per il ritorno della Rivoluzione Cittadina”. Intervista con l’ex ministro Ricardo Patiño, 18 agosto 2023).

Le rivoluzioni e le trasformazioni sociali in America Latina smentiscono la retorica della (presunta e mistificatoria) «fine della storia» e segnalano la vitalità del socialismo, come progetto rivoluzionario di trasformazione. Sulla scorta della grande lezione storica e politica di Fidel Castro, centrati sui valori dell’etica, della formazione di una «nuova umanità», del patriottismo e dell’antimperialismo, della costruzione di una nuova patria, secondo l’eco martiana, «con tutti e per il bene di tutti», attorno a Cuba socialista si sono, di volta in volta, orientati in senso progressista il Nicaragua di Daniel Ortega, la Bolivia di Evo Morales e ora di Luis Arce, sino ad alcuni anni fa l’Ecuador di Rafael Correa, ora la Colombia di Gustavo Petro, nuovamente il Brasile di Lula, quindi l’Argentina di Kirchner e Fernandez, il Perù di Pedro Castillo, poi abbattuto da un golpe della destra legata all’imperialismo statunitense, la destra politica delle burocrazie e degli apparati e la destra economica dei ceti dominanti e delle oligarchie, sino alla rivoluzione bolivariana e socialista ispirata da Hugo Chávez in Venezuela. Anche in Guatemala, la più recente delle tornate elettorali (20 agosto 2023) ha registrato la vittoria presidenziale di Bernardo Arévalo, espressione del Movimento Semilla, di orientamento progressista e idealmente erede della precedente esperienza presidenziale di Juan José Arévalo (1945-1951), informata al cosiddetto «socialismo espiritual», un orientamento di carattere popolare e democratico attraverso il quale costruire un’organizzazione sociale «inclusiva e pacifica».

Sono, in tale quadro, significativi anche alcuni recenti sviluppi di carattere geoeconomico e strategico, tra i quali, nelle loro linee essenziali: il progetto, varato nel gennaio 2023, tra l’Argentina e il Brasile, di avviare uno studio preliminare ai fini della creazione di una moneta comune tra Argentina e Brasile, da estendere poi, in una seconda fase, quale moneta comune dell’intera America Latina; l’accordo, stipulato nel marzo 2023, tra il Brasile e la Repubblica Popolare Cinese, per consentire ai due Paesi di usare le rispettive monete nazionali nelle transazioni commerciali e finanziarie, estromettendo il dollaro dai loro rapporti commerciali; l’intenzione di rilanciare l’integrazione politica ed economica, su base progressista, dell’America Latina (nel senso della “Patria Grande” latino-americana) in chiave antimperialista e sulla base delle esistenti architetture di integrazione regionale. In particolare, il ritorno alla presidenza di Lula in Brasile, la maggiore economia su scala regionale e la nona su scala mondiale, a partire dal 1 gennaio 2023 ha dato ulteriore impulso a questi fattori di avanzamento, aprendo, in particolare, alla prospettiva di un più solido partenariato internazionale basato sul sistema dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), alla costruzione di un sistema di alleanze alternativo a quello espressione dell’unipolarismo occidentale dominato dall’imperialismo statunitense, e ad un rilancio del multipolarismo.

Sullo sfondo di tali tensioni e fermenti, nel crogiuolo della storia e della prassi, le rivoluzioni e le grandi trasformazioni sociali in America Latina costituiscono, dunque, un avanzamento dell’innovazione stessa del socialismo nel senso del “socialismo del XXI secolo”, come moderna declinazione del tema delle «vie nazionali al socialismo», basata sul marxismo e il leninismo e sulle peculiarità dei rispettivi contesti storici e nazionali.

Tale prospettiva è concepita, per richiamare la nota espressione chavista, non come “socialismo democratico” ma come “democrazia socialista”, in termini di «democrazia partecipativa e protagonistica», di trasformazione generale della società e dello Stato, e di un profondo cambiamento nella struttura economica e produttiva. Nell’orizzonte di tale prospettiva, la stessa proclamazione del carattere socialista del processo rivoluzionario non si esaurisce in un esercizio retorico o propagandistico, ma rappresenta uno specifico orientamento politico e programmatico. Ciò, a maggior ragione, vale per la storica proclamazione del carattere socialista della rivoluzione cubana (1961), in virtù della quale «abbiamo dichiarato che la Rivoluzione è socialista. Cosa significa che la Rivoluzione è socialista; significa che qui tutto è socializzato? No. Significa che tutto qui sarà socializzato all’impronta? No. Il fatto è che la Rivoluzione è un processo, e che il socialismo non può essere realizzato per decreto.

«Il socialismo è un regime economico e sociale che si realizza attraverso un processo; non per decreto. Con decreto si possono nazionalizzare gli zuccherifici; con decreto si possono nazionalizzare le banche; con decreto si possono nazionalizzare le grandi industrie; con decreto si possono adottare una serie di provvedimenti; ma, con decreto, non si realizza un regime economico e sociale compiuto. Tra l’altro, la Rivoluzione è un processo di educazione del popolo – di formazione della coscienza rivoluzionaria».

Il socialismo bolivariano nel contesto più generale del «socialismo del secolo 21».

Nello storico discorso tenuto al Social Forum a Porto Alegre (2005), Hugo Chávez ha espresso, per la prima volta in maniera compiuta, il carattere socialista del processo bolivariano in Venezuela: «La rivoluzione […] è un’accelerazione di processi – accelerazione e approfondimento – soprattutto verso una società di uguali, dove non vi siano esclusi. La maggior parte di questi ragazzi aspettavano da anni un posto all’università, non potevano entrare nelle università; le università erano state privatizzate, questo era il piano imperialista neoliberista, la sanità era stata privatizzata – ma non si può privatizzare, è un diritto umano fondamentale; così la sanità – come l’istruzione, l’acqua, l’elettricità, i servizi pubblici; tutto questo non può essere consegnato alla voracità del capitale privato. Questo nega i diritti dei popoli, questa è la via della barbarie. Il capitalismo è barbarie […]. Il capitalismo non sarà trasceso all’interno del capitalismo stesso. Il capitalismo deve essere trasceso attraverso il socialismo. È attraverso questo percorso, e quindi il socialismo, che dobbiamo trascendere il modello capitalista».

Un processo che si innesta sulle caratteristiche e le peculiarità di ciascun contesto nazionale e che trova nel pensiero e nella prassi di alcuni grandi precursori latino-americani le proprie scaturigini e la propria ispirazione. Come scrisse, infatti, José Carlos Mariátegui (1894-1930), personalità fondamentale del marxismo latino-americano, «nei villaggi indigeni, dove le famiglie sono raggruppate e i legami del patrimonio comune e del lavoro comunitario sono stati estinti, esistono ancora forti e tenaci abitudini di cooperazione e solidarietà che sono l’espressione empirica di uno spirito comunista. La comunità corrisponde a questo spirito. È il suo organo. Quando l’espropriazione e la distribuzione sembrano liquidare la comunità, il socialismo indigeno trova sempre i mezzi per ricostruirla, mantenerla o surrogarla» (J. C. Mariátegui, 1928). Su questo sfondo, i processi rivoluzionari e di trasformazione sociale nel subcontinente costituiscono anche un’inedita, originale e attuale, esperienza di “via nazionale al socialismo” nel senso, come anticipato più sopra, già espresso in Italia da Palmiro Togliatti (1956), del «riconoscimento di principio delle diverse vie di sviluppo verso il socialismo».

È una formulazione di vasta portata e di estrema attualità per tre ordini di ragioni: ribadisce la base di classe, formata dalla classe operaia e dal movimento dei lavoratori, e guidata dalla direzione politica rivoluzionaria, del processo di trasformazione in senso socialista della società e dello Stato; riconosce il dato fondamentale per il quale la transizione non può uniformarsi a un “modello” generale e astratto, né ridursi, parafrasando Mariátegui, a calco o copia di esperienze altrui; sottolinea che la forza del socialismo e in ultima istanza del marxismo, quale materialismo storico e dialettico e pensiero-prassi della liberazione, consiste anche nella sua capacità di generare e innestarsi su una “lunga durata” storica, sulle peculiarità politiche, nazionali e culturali, di sviluppo storico e di tradizioni culturali, di ciascun Paese, nelle sue caratteristiche nazionali e nelle sue specificità contestuali.

Il socialismo bolivariano è dunque anche, tra le altre cose, una straordinaria espressione di via nazionale: radicato, da un lato, nella vicenda sociale, popolare e di massa; alimentato, dall’altro, da una serie di apporti politici e culturali retroagenti, quali, nel caso dell’esperienza bolivariana, le «tres raíces», le tre radici, vale a dire il pensiero e l’azione di tre grandi rivoluzionari venezuelani quali Simón Rodríguez (1769-1854), Simón Bolívar (1783-1830) ed Ezequiel Zamora (1817-1860); e poi l’orientamento patriottico e di sinistra di settori delle forze armate, nelle cui cerchie, del resto, matura la riflessione legata al cosiddetto «albero delle tre radici», e che formerà il retroterra per una delle architravi del processo bolivariano, vale a dire l’«unione civico-militare».

E poi, ancora, il socialismo scientifico, a partire dal pensiero di Marx e di Lenin, quest’ultimo in particolare in relazione al ruolo della soggettività nel processo rivoluzionario e alle forme della organizzazione in senso rivoluzionario degli operai, dei contadini e dei soldati attraverso articolazioni di direzione politica di carattere consiliare; quindi le più vicine esperienze socialiste del Novecento, a partire dal punto di riferimento essenziale costituto dalla «Revolución», da Cuba socialista, e dalle fondamenta storiche e politiche gettate da quel gigante del Novecento che è Fidel Castro, insieme con l’esperienza del “Che” Guevara; il pensiero e la prassi della «ecologia integrale», anche questa, peraltro, espressione tipicamente bolivariana; il riconoscimento degli apporti specifici, in termini di soggettività costituenti e di culture nazionali, delle comunità native; il «cristianesimo di base» e quella straordinaria esperienza latino-americana passata alla storia come Teologia della Liberazione.

È stato, del resto, lo stesso Hugo Chávez a sintetizzare che il carattere bolivariano e socialista del processo rivoluzionario rappresenta «una necessità imperiosa per tutti i venezuelani, per tutti i latino-americani. Ricercare indietro, nelle chiavi o nelle radici della nostra stessa esistenza, la formula per uscire da questo terribile labirinto nel quale ci troviamo […]. Così stiamo noi venezuelani, oggi; dobbiamo guardare al passato per provare a svelare i misteri del futuro, per svelare le formule con cui risolvere il grande dramma venezuelano di oggi».

Nel cercare un punto di innesco del processo, è pressoché immediato risalire al cruciale 27F, il 27 febbraio 1989, con il Caracazo, la sollevazione popolare contro il carovita, deflagrata quando migliaia di persone, soprattutto poveri delle periferie, lavoratori e studenti, si mobilitarono in massa contro l’aumento del prezzo della benzina, dei carburanti, del trasporto pubblico e finanche dei generi di prima necessità, a seguito di un famigerato “piano di aggiustamento strutturale”, il pacchetto di misure di austerità imposto dal Fondo Monetario Internazionale.

Era quello il Venezuela della Quarta Repubblica, la repubblica venezuelana prima di Chávez, nuovamente in crisi, sin dal 1982-1983, sottoposta ai diktat di Washington, e segnata da quella che ha preso varie denominazioni, democrazia “bloccata”, “fittizia”, “mascherata”, che tutto poteva definirsi tranne che, propriamente, democrazia. Era, cioè, la cosiddetta democrazia del Patto di Punto Fijo, un patto di alternanza conservatrice, sponsorizzato da Washington, con il quale si restringeva l’alternanza al potere dei due partiti-establishment, Acción Democrática (AD), di orientamento socialdemocratico, e il Comité de Organización Política Electoral Independiente (COPEI), di orientamento democristiano, e si sanciva, di conseguenza, la conventio ad excludendum ai danni dei comunisti.

Alle forze armate fu dato l’ordine, per reprimere la sollevazione del 27 febbraio, di sparare sulla folla, ordine al quale Hugo Chávez e i militari a lui vicini si rifiutarono di obbedire; sulle spalle della Quarta Repubblica grava, dunque, anche questo massacro, alla luce del quale per il governo si sarebbe trattato di “soli” 300 morti, mentre si trattò invece di migliaia di vittime, in una protesta popolare che, come ricordò lo stesso Chávez, da “Caracazo” si trasformò ben presto in “Venezolazo”, estendendosi a tutto il Paese. Per la frazione delle forze armate di cui Chávez era leader, l’MBR 200 (Movimento Rivoluzionario Bolivariano 200), fu un punto di svolta che rafforzò ancora di più la propensione bolivariana, anti-imperialista e di giustizia sociale della compagine, nella quale si riconosce la protoforma, il nucleo embrionale, della futura, già richiamata poc’anzi, «unione civico-militare». 

Questa avrebbe fatto la sua prima prova in un’altra data simbolica del calendario bolivariano: il 4F, la data della sollevazione civico-militare del 4 febbraio 1992. Si trattava di una sollevazione di carattere civico-militare con un preciso orientamento politico e sociale, determinato dalla nuova, gravissima, crisi economica, sociale e politica nella quale era piombato il Venezuela sin dal 1990-1991, e del quale le avvisaglie risalivano, come detto, agli anni Ottanta. Quando la sollevazione fallisce, Chávez se ne assume, dinanzi al Paese, la piena responsabilità; rivendica il carattere bolivariano del movimento; e sottolinea che quel tentativo era fallito «por ahora», “solo per adesso”, segnando già, quindi, la traiettoria dell’avvenire. Come ricordano le cronache, «di fronte al Paese e davanti a voi, assumo la responsabilità di questo movimento militare bolivariano».

Questa lunga fase preparatoria, e la sempre più incalzante accumulazione di consenso e di sostegno alla causa rivoluzionaria, trovò il suo primo esito il 6 dicembre 1998, con la vittoria di Chávez alle elezioni presidenziali, e quindi con il successivo insediamento in un’altra data memoriale, il 2F, il 2 febbraio 1999. Il movimento politico con il quale Chávez si era presentato alle elezioni e con il quale aveva vinto il primo mandato presidenziale si chiamava, non a caso, Movimento per la Quinta Repubblica: era stato fondato nel 1997, si presentò alle elezioni con uno schieramento bolivariano, patriottico e socialista, composto anche da Movimento al Socialismo (MAS), Movimento elettorale del popolo (MEP), Patria per tutti (PPT) e Partito comunista del Venezuela (PCV), e, sin nel nome, annunciava il disegno strategico di una completa trasformazione dello Stato e della società, con la parola d’ordine dell’Assemblea nazionale costituente e della redazione di una nuova carta costituzionale.

Quattro sono stati i mandati presidenziali di Hugo Chávez; il primo, tra il 1999 e il 2000, segnato della nuova Costituzione bolivariana; il secondo, tra il 2000 e il 2006, in cui, dopo il golpe del 2002, respinto dalle masse popolari che letteralmente reinstallano Chávez al Palazzo di Miraflores, sempre più esplicitamente si afferma il carattere socialista della rivoluzione bolivariana; il terzo, dal 2006 al 2012, nell’arco del quale viene fondato il PSUV, il Partito Socialista Unito del Venezuela; il quarto, infine, dal 2012 alla scomparsa fisica, nel 2013, con la preparazione del mandato successivo a Nicolás Maduro. Quando dunque si parla di socialismo bolivariano, si parla, al tempo stesso, di quella specifica declinazione di “socialismo del XXI secolo” che ha trovato in Chávez il suo principale dirigente e il suo fondamentale ispiratore. A dispetto delle interpretazioni moderate diffuse in Europa, si tratta di un concetto rivoluzionario, un paradigma economico e politico del processo bolivariano.

Quando, il 30 gennaio 2005, nel discorso tenuto al Social Forum di Porto Alegre, Chávez proclamò il carattere socialista della rivoluzione bolivariana, lo espresse nei termini plurali di un socialismo patriottico e popolare, bolivariano e marxista, che «deve essere umanista e deve mettere gli esseri umani e non le macchine in condizioni di superiorità nei confronti di tutto e di tutti». Ecco perché, tornando alla tesi, quella di Chávez è una grande ispirazione, «né calco né copia», ma di costruzione originale del socialismo con caratteristiche bolivariane. Una costruzione basata, come anticipato, sull’unione civico-militare, fondata su una potente, autentica, connessione sentimentale con le masse popolari, e destinata a trascendere l’architettura tradizionale dello Stato “formale”.

Tre sono gli aspetti principali di questo processo di trasformazione in senso socialista: le Misiones; i Consejos Comunales e le Comunas Socialistas; la strategia antimperialista, internazionalista e della «Diplomacia de Paz». Tra questi, il segmento di base è rappresentato dalle Misiones, vale a dire il Sistema delle Missioni e delle Grandi Missioni Socialiste. Sarebbe sbagliato considerarle semplicemente come un “programma di protezione sociale”, una sorta di variante bolivariana del welfare europeo: se è vero, per un verso, che garantiscono diritti sociali e soddisfano bisogni sociali di larghi strati della popolazione, è non meno vero che si tratta di una forza motrice del potere popolare bolivariano e di uno straordinario strumento di autodeterminazione, sia sotto il profilo sociale sia sotto il versante politico, un luogo di inclusione, di partecipazione protagonistica e di autogoverno di comunità.

La Legge sulle Missioni (2014) definisce infatti la Missione come «una politica pubblica volta a concretizzare in modo massiccio, accelerato e progressivo le condizioni per l’esercizio effettivo e il godimento universale di uno o più diritti sociali di individui o gruppi di individui, che coniuga lo snellimento dei processi statali con la partecipazione diretta del popolo nella loro gestione, a favore dell’eliminazione della povertà e della conquista a livello popolare dei diritti sociali». Gli ambiti nei quali le Missioni si svolgono sono sette: istruzione; lavoro; salute; protezione, assistenza e solidarietà sociale; alimentazione; abitazione; sicurezza e servizi fondamentali.

In questa strategia, la costruzione delle cosiddette Basi delle Missioni, creazione originale della rivoluzione bolivariana, serve ad estendere ed approfondire il lavoro sociale e politico con le comunità, dal momento che l’aggiornamento del sistema delle missioni (2021) definisce le Basi delle Missioni Socialiste come «spazi per la territorializzazione delle politiche e dei programmi di protezione sociale, il rafforzamento del potere popolare, le Missioni, le Grandi Missioni e le Micro-missioni sociali, con l’obiettivo di garantire l’assistenza primaria alle persone e alle famiglie e sviluppare lo Stato del benessere sociale» nella forma dell’Estado de bienestar social. Questi spazi sono quindi diventati il tessuto connettivo delle Missioni – e delle Grandi Missioni Socialiste – strutture per garantire il soddisfacimento dei bisogni, il riconoscimento dei diritti, l’accesso alle funzioni sociali, nonché la costruzione di comunità, la partecipazione e l’organizzazione socio-politica, la direzione dei processi.

A tutt’oggi sono presenti e attive in Venezuela una rete di Grandi Missioni quali la Gran Misión Vivienda Venezuela, la Gran Misión a Toda Vida Venezuela, la Gran Misión Hogares de la Patria, accompagnate dalla Misión Barrio Adentro, dalla Misión Alimentación, dalle tre missioni educative Robinson, Ribas e Sucre, e ancora dalle missioni Barrio Adentro Deportivo e Cultura. Una serie di ulteriori funzioni è rappresentata dalle note Missioni Negra Hipólita, José Gregorio Hernández, Amor Mayor, Sonrisa, Milagro, nonché, particolarmente significative dal punto di vista delle politiche di città, di protezione della comunità e di promozione della pace (una particolare declinazione della visione della «pace positiva», vale a dire della pace insieme con diritti umani e giustizia sociale), la Misión Gran Barrio Nuevo Barrio Tricolor e la Misión Cuadrantes de Paz, missione innovativa, quest’ultima, di sicurezza urbana e sociale in forma integrata, con la quale mettere a fuoco le principali situazioni di impatto sociale, quali i crimini gravi e le problematiche della convivenza nelle comunità.

Come si diceva poc’anzi, sarebbe sbagliato considerare questa articolazione alla stregua, né più né meno, di un sistema di welfare; esse costituiscono, infatti, un’articolazione essenziale del quadro politico-sociale della rivoluzione bolivariana, vale a dire una manifestazione del potere popolare, organizzato, a propria volta, in una serie di articolazioni sociali e politiche, quali i CLAP (Comitati locali di approvvigionamento e produzione, istituiti nel 2016 per contrastare gli effetti della guerra economica scatenata dall’imperialismo contro il Paese, ma anche le conseguenze della speculazione e dell’accaparramento messi in atto dalle destre economiche e politiche); l’UBCh (Unità di battaglia Hugo Chávez, strumenti e catalizzatori di mobilitazione e di partecipazione popolare, nonché sentinelle e punti di collegamento tra le comunità e le autorità per la soluzione dei problemi più sentiti e la costruzione delle istanze di governo di comunità); i Comitati di salute (Comitati di base del sistema sanitario pubblico e universalistico per la fornitura di servizi di assistenza sanitaria primaria in tutti i centri ospedalieri, i Centri diagnostici integrali – CDI, le Aree di salute integrale comunitaria – ASIC, e i Consultori popolari – CP).

E poi ancora il Fronte (Piattaforma) Unamujer (Unión Nacional de Mujeres, Unione nazionale delle donne, organizzazione popolare di movimenti e organizzazioni a difesa dei diritti delle donne, per lo sradicamento del patriarcato e come forza femminista per rafforzare il socialismo bolivariano); il Fronte Francisco de Miranda (del quale ricorre nel 2023 il ventennale, creato il 29 giugno 2003 a L’Avana, Cuba, su iniziativa di Hugo Chávez e Fidel Castro, come forza di mobilitazione e di avanzamento del processo rivoluzionario, recentemente definita da Nicolás Maduro come la «punta di lancia del lavoro sociale rivoluzionario del Venezuela bolivariano»), e ancora gli studenti e le studentesse delle missioni sociali e il Movimento Somos Venezuela, che, con le articolazioni di base, intervengono sul territorio per individuare le soluzioni ai problemi e per rafforzare i servizi di base.

Il secondo pilastro, le Comunas Socialistas (le Comuni socialiste), registra un momento di svolta nel 2007, quando Chávez annuncia la strategia dei «cinque motori»: la Ley Abilitante (potere presidenziale per un periodo determinato); le riforme costituzionali in senso socialista; il rafforzamento dei programmi educativi e sanitari; il cambiamento della «geometria del potere», vale a dire la distribuzione dei poteri economico, politico e militare; e, appunto, il rafforzamento di Consejos Comunales e Comunas. Con l’introduzione dei Consejos Comunales e delle Comunas, in Venezuela si rafforza il principio-guida della «democrazia partecipativa e protagonistica» e si sperimenta una forma di autogoverno popolare di massa: nei Consejos Comunales la comunità, riunita in assemblea, definisce le proprie esigenze come comunità, dalla costruzione di una piccola struttura o infrastruttura comune al miglioramento degli approvvigionamenti, dall’allestimento di una scuola alla realizzazione di un ospedale. In particolare, attraverso il piano dedicato alla cosiddetta «espansione rivoluzionaria del potere comunale», si rende capillare il trasferimento di poteri, funzioni, risorse e competenze a questi nuovi consigli di comunità.

Successivamente, nel 2010, sono stati introdotti alcuni strumenti giuridici per garantire i fondamenti dello «Stato dei consigli» basato sul potere popolare. Uno di questi è la Legge organica delle Comunas, che stabilisce questa nuova forma partecipativa come la cellula fondamentale della nuova architettura statale, impostata come «spazio socialista» per l’autogoverno delle comunità, basata sui Consejos Comunales e le altre organizzazioni sociali comunitarie. Sia la Legge organica dei Consejos Comunales (2009), sia la Legge organica delle Comunas (2010) stabiliscono che le organizzazioni comunitarie riconosciute dallo Stato bolivariano hanno come obiettivo fondamentale la «costruzione del socialismo». In quello che viene emergendo come Stato dei consigli, dunque, le decisioni sono prese con meccanismi di democrazia diretta e numerose funzioni sono assegnate ai Consejos Comunales e alle Comunas. Queste sono, per un verso, aggregatori dei Consejos Comunales, e, per l’altro, soggetti dotati di compiti propri, tra i quali contribuire all’ordine pubblico, costruire una «economia della proprietà sociale» come forma di «transizione al socialismo», e garantire l’efficacia della partecipazione nella formulazione, esecuzione e controllo delle misure circa gli aspetti politici, economici, sociali, culturali, ecologici e di sicurezza.

Le Comunas sono incaricate di redigere i piani comunali e possono costruire sistemi di aggregazione, come le città comunali e le federazioni comunali, nelle forme disciplinate dalla legge. Si giunge così a una nuova «geometria del potere» che non ha precedenti. Il Venezuela abbandona il concetto tradizionale di repubblica divisa in stati, province e municipi, e adotta un’altra concezione dello spazio, creando nuove città comunitarie o trasformandone altre già esistenti. Il Venezuela si dota di meccanismi deliberativi e partecipativi esplicitamente di ispirazione socialista, nei quali si esprime, al tempo stesso, l’autogoverno di base e la ricerca delle soluzioni condivise ai problemi comuni. Il Venezuela supera anche la configurazione tradizionale della divisione dei poteri, in quanto lo Stato non è più articolato in tre poteri, ma in cinque poteri: esecutivo, legislativo, giudiziario, elettorale e cittadino, e, nel complesso, tali poteri definiscono l’articolazione del potere popolare. Chávez in prima persona attribuì alle Comunas Socialistas il massimo risalto ai fini della trasformazione dello Stato e della società: «Le Comunas sono la base dello Stato sociale di diritto e giustizia, … una rete che si sviluppi come una vasta ragnatela che copra il territorio del nuovo, e che, altrimenti, sarebbe destinata al fallimento» (H. Chávez, 2012).

Il processo di progressiva trasformazione in senso socialista dello Stato e della società segue dunque la cadenza dell’evoluzione e del potenziamento delle Comunas Socialistas e, attraverso di esse, dello Stato emergente dei consigli. Per un verso, si individua in una struttura e in un’architettura di carattere consiliare, che ha tra i suoi antecedenti storici l’esperienza dello Stato consiliare (sovietico, da “soviet”, “consiglio”) della Russia socialista, il motore del processo di «transizione» e la base della riconfigurazione della geometria del potere e del processo decisionale. Per l’altro, si assegna a quella medesima architettura e struttura il carattere di articolazione di base, nucleo fondativo della nuova configurazione dello Stato nella forma di uno «Stato sociale di diritto e giustizia».

La base materiale di tale processo è stata rafforzata a partire dal 2008, quando una struttura fondamentale del processo di transizione è stata gettata con il piano di nazionalizzazioni: non solo l’utilizzo per finalità sociali delle entrate petrolifere dell’impresa statale PDVSA (Petróleos de Venezuela), ma anche, a partire dal 2009, la siderurgia, l’oro e l’agroalimentare, quest’ultimo essenziale per far fronte alle conseguenze della guerra economica perpetrata dagli Stati Uniti contro il Venezuela (e contro Cuba). Ancora con le parole di Chávez, la proprietà statale è necessaria non solo in quanto, notoriamente, elemento costitutivo ineludibile della transizione socialista, ma anche per rendere «più efficiente il sistema» e per «integrarle nel complesso industriale socialista». Come ha ricordato Luis Arce, presidente dello Stato Plurinazionale di Bolivia, nello svolgimento dei lavori dell’Incontro mondiale per la validità del pensiero bolivariano del comandante Hugo Chávez nel XXI secolo (6 marzo 2023), Chávez ha puntato sulla integrazione nel quadro della Patria Grande perché ha previsto che «i Paesi e i popoli divisi non possono vincere».

L’integrazione dei popoli, in senso antimperialista, è oggi una «risposta alla teoria della globalizzazione», perciò è dovere di tutti i rivoluzionari «continuare a costruire questo pensiero dell’integrazione» e della Patria Grande. È questo il terzo pilastro della rivoluzione bolivariana: una politica indipendente e antimperialista per un mondo multipolare, e una Diplomazia di Pace («Diplomacia de Paz»), basata sull’internazionalismo, guidata dal principio strategico della «cooperazione reciproca e solidaria» nei rapporti con i Paesi e i popoli del mondo, evidentemente ispirata dall’esempio di Fidel Castro, nel senso dell’integrazione latino-americana, dell’amicizia tra i popoli, del sostegno alle lotte di emancipazione, della solidarietà internazionale, della non-ingerenza e della composizione pacifica dei conflitti. Il fatto che proprio l’America Latina progressista e rivoluzionaria sia stata l’incubatrice di interessanti proposte di mediazione e di risoluzione di alcuni tra i più gravi conflitti armati del nostro tempo indica, retrospettivamente, la vitalità del lascito castrista e la creatività di tale efficace “diplomazia di pace”.

Nel 2011 fu Chávez a farsi promotore di una proposta di pace per la prevenzione della guerra in Libia e contro l’aggressione imperialistica che le potenze occidentali (in primo luogo gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e, soprattutto, la Francia) andavano preparando. La delegazione bolivariana alle Nazioni Unite propose infatti la costituzione di una «Commissione internazionale di buona volontà per la ricerca della pace in Libia, mediante la promozione del dialogo fra le parti», secondo la proposta che era stata avanzata dallo stesso Chávez. La proposta consisteva nella realizzazione del cessate-il-fuoco e nella implementazione di una commissione internazionale per la verifica dei fatti e la mediazione fra le parti con rappresentanti del Movimento dei non allineati (NAM), dell’Unione Africana, della Lega Araba, della Conferenza islamica, di UNASUR e ALBA, respingendo qualsiasi ingerenza esterna.

Nel 2023 è Lula a essere tra gli attori internazionali più impegnati ai fini di una soluzione politica e diplomatica della guerra per procura che oppone gli Stati Uniti e la NATO alla Federazione russa in Ucraina. Il 14 aprile 2023, nel contesto dell’incontro bilaterale con il presidente della Repubblica Popolare Cinese, Xi Jinping, Lula ha illustrato i contenuti generali di un piano centrato intorno alla proposta della restituzione da parte russa dei territori ucraini annessi ufficialmente dopo il 24 febbraio 2022 (in particolare le regioni di Kherson e di Zaporižžja/Zaporožje e i territori ulteriori nella regione del Donbass), della definizione dello status dei territori ucraini autodeterminatisi prima del 24 febbraio 2022 (la Repubblica popolare di Donetsk e la Repubblica popolare di Lugansk) attraverso una nuova consultazione popolare, e della conferma della sovranità della Federazione russa sulla Crimea, giungendo ad un cessate-il-fuoco concordato ed evitando un’ulteriore prosecuzione ed estensione del conflitto armato.

L’impostazione della «Diplomacia de Paz» si traduce, a sua volta, nella propensione all’integrazione regionale su basi di parità e reciprocità, nel senso della Patria Grande latino-americana. Si pensi, solo per citare le principali architetture regionali impostate proprio a partire dall’asse tra Venezuela bolivariano e Cuba socialista, all’ALBA (Alleanza bolivariana per i popoli della Nostra America, istituzione intergovernativa di cooperazione politica, sociale ed economica, promossa da Venezuela e Cuba nel 2004); l’UNASUR (Unione delle nazioni sudamericane, unione di Stati varata con il Trattato Costitutivo dell’Unione nel 2008); la CELAC (Comunità di Stati latino-americani e caraibici, comunità di Stati varata nel Vertice dell’Unità dell’America Latina e dei Caraibi, a Playa del Carmen, in Messico, nel 2010 e costituita formalmente con il Vertice di Caracas, nel 2011); il Banco del Sur, istituito con trattato tra Argentina, Brasile, Bolivia, Ecuador, Paraguay, Uruguay e Venezuela, nel 2007; e Petrocaribe, l’accordo regionale di cooperazione petrolifera tra il Venezuela e gli Stati caraibici, nel 2005. Come sempre, nell’orizzonte del socialismo, la trasformazione sociale e politica e l’avanzamento delle condizioni materiali di esistenza delle masse popolari si coniugano con una prospettiva internazionalista e antimperialista, un “mondo nuovo” da costruire.

Anche questa è un’eredità della visione di Fidel Castro e di Hugo Chávez. Ricordando “Che” Guevara, «è l’uomo del XXI secolo quello che dobbiamo creare, benché si tratti ancora di un’aspirazione soggettiva e non sistematizzata. Proprio questo è uno dei punti fondamentali del nostro studio e del nostro lavoro e nella misura in cui otterremo risultati concreti su una base teorica o, viceversa, ricaveremo conclusioni teoriche di carattere generale dalla nostra ricerca concreta, avremo dato un valido apporto al marxismo-leninismo e alla causa dell’umanità».

Riferimenti:

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