Intervento di Ascanio Bernardeschi al Convegno di venerdì 29 settembre a Torino organizzato dal Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”, “Interstampa” e “Cumpanis”, dal titolo “Socialismo con caratteristiche cinesi e ruolo della Cina per un mondo multipolare”
Di Ascanio Bernardeschi
Buona sera e grazie a Interstampa per l’invito rivoltomi.
Nel tentativo di ridurre i rischi di ripetermi con gli altri relatori, inizierò ad affrontare l’argomento partendo dal commentare le riflessioni di alcuni economisti borghesi.
È interessante notare che una serie di dichiarazioni costituiscono una conferma del carattere ideologico della “scienza economica” (doverosamente fra virgolette).
Infatti gli stessi economisti, premi Nobel compresi, che non avevano previsto la crisi del 2007-8 ora vanno pronosticando una crisi proveniente dalla Cina a causa del rallentamento della crescita di quell’economia, del ribasso della quotazione del yuan o renminbi, del rallentamento delle esportazioni e della bolla immobiliare.
Peraltro la cosa non è nuova perché crisi della borsa cinese che avrebbero avuto effetti devastanti sono state annunciate diverse volte in passato e sempre la bolla che è scoppiata è stata quella delle previsioni.
Kenneth Rogoff, docente ad Harvad, ha sentenziato:
«Purtroppo sta verificandosi quanto, con altri economisti, avevamo immaginato da tempo: il “superciclo del debito”; lo stesso che aveva messo in ginocchio gli Stati Uniti nel 2008 e l’Europa nel 2010…. Le conseguenze possono essere molto dolorose per tutti»[1].
Veniamo al premio Nobel Robert Shiller, il quale, in attesa dei «risultati delle misure d’emergenza approntate a Pechino», paragona la situazione cinese ad altri momenti di euforia verificatisi nei paesi imperialisti, poi terminati con lo scoppio della bolla finanziaria.
Egli attribuisce questo comportamento irrazionale alla natura umana, in linea con la naturalizzazione del modo di produzione capitalistico da parte di tutta l’economia politica borghese, da Adam Smith in poi, secondo cui il capitalismo è “naturale”, quindi “eterno”[2].
Giulio Tremonti, in un’intervista, alla domanda se ritiene che la Cina e i Brics possano scalzare il dominio occidentale, ha risposto negativamente, «e questo per un motivo molto semplice: a chi si contrappone all’Occidente e ai suoi alleati, manca un elemento essenziale. La libertà» […] «non vedo grandi prospettive di sviluppo, il quale passa dalla scienza e la scienza passa per la libertà. In India di libertà ce n’è in un certo grado, ma non certo in Cina»[3].
Questa risposta si presta a un’obiezione che prescinde pure dalle idee reazionarie del nostro ex ministro ma riguarda i fatti duri e crudi.
I fatti sono che la Cina, in pochi anni, ha sviluppato la scienza al punto di sopravanzare in molti campi perfino gli Usa.
Anche in alcuni settori tecnologici in cui ancora è indietro, come la produzione di chips, sta facendo passi da gigante per colmare il ritardo.
Quindi i casi sono due: o la Cina, ha conseguito questi risultati perché è un paese “libero” e la cosa è sfuggita a Tremonti; oppure la “libertà” (intesa come libertà del mercato) con lo sviluppo della scienza c’entra quanto il cavolo a merenda.
Infatti l’innovazione scientifica funziona proprio al contrario di quanto egli afferma, cioè molto meglio quando è orientata dai governi, di quando è lasciata in mano al “libero mercato”, il quale può preferire applicazioni lucrose nel brevissimo periodo ma inutili per lo sviluppo di una società.
La libertà dell’Occidente è visibile nelle maggiori città statunitensi ov eim marciapiedi sono stracolmi di poveri, un numero sempre crescente, anche a due passi da Wall Street, mentre la Cina ha tolto dalla povertà centinaia di milioni di uomini e donne.
C’è però una terza ipotesi, ed è la cosa più probabile: tutta questa fuffa è un diversivo puramente ideologico e propagandistico in favore della vera libertà a cui tiene Tremonti, quella di lasciare le mani libere al capitale.
Perfino intellettuali “eretici” e “di sinistra” non si distinguono molto da questa narrazione, a conferma della differenza esistente fra essere di sinistra ed essere marxisti.
Per esempio Simone Pieranni, sul “Manifesto” del 20 agosto con il suo Il vero pericolo per la Cina è un popolo disilluso[4], ragiona sul ruolo della psicologia dei cinesi nella crisi e Cristian Marazzi su “Effimera”, paragona la situazione cinese a quella del Giappone e delle tigri asiatiche in crisi alcuni decenni fa[5], sottacendo colpevolmente che quelle crisi furono dovute alla dipendenza di quelle economie dai dictat degli Stati Uniti e dai “consigli del Fondo Monetario internazionale, mentre la Cina si è guardata bene dall’adottare le shock therapy essendo in grado di ignorare tranquillamente queste prescrizioni e la sua integrazione nel mercato mondiale è avvenuta tenendo ferme una caratteristica del suo sistema economico: economia mista fermamente diretta politicamente.
Infine Marazzi conclude: «le ripercussioni della bolla immobiliare cinese sui mercati finanziari globali potrebbero essere rilevanti» e potrebbero «dare il colpo finale all’Eurozona», come se ce ne fosse bisogno e non fossimo già col sedere a terra.
Questi economisti più o meno famosi, come si sbagliarono a non prevedere la crisi dei subprime, si sbagliano oggi a presagire disastri in Cina e ripercussioni nell’economia mondiale.
Vediamo i motivi.
Il rallentamento della crescita in Cina è un dato di fatto. In gran parte è dovuto alle misure avverse statunitensi che stano violando le regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) penalizzano tutte le imprese del globo che non le applicano. Non potendo gli Stati Uniti e le altre potenze imperialiste competere con la Cina sul piano del libero mercato, hanno abbandonato le politiche liberali – proprio loro che le osannavan – ora che non fanno loro più comodo.
Nonostante tutto ciò il livello di crescita della Cina, intorno al 5%, sarebbe considerato strabiliante nelle economie occidentali, la maggior parte delle quali è in stagnazione.
Il tentativo degli Stati Uniti di contenere la Cina è destinato a fallire perché la Cina sta trovando partner in tutta l’economia mondiale (esempi: l’allargamento dei Brics, Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai) e sarà l’Occidente a fare le spese delle proprie sanzioni. Saranno gli Usa che ora possono fare poco per impedire il ridimensionamento del ruolo del dollaro nei pagamenti internazionali e nelle riserve delle banche centrali. Sem sul terreno economico lam cosa è evidente da un pezzo, anche il ricorso al terreno mili9tsre si sta dimostrando sempre meno efficace, l’Afghanistan e l’Ucraina ci stanno mostrando che gli Statesi e la Nato non sono più invincibili.
Anche l’enfasi sulle quotazioni della valuta cinese in ribasso rispetto a quelle del dollaro, non tiene conto che la causa di ciò è stato l’aumento dei tassi di interesse sui dollari USA che ne hanno incrementato la domanda, Studi accurato mostrano che l’ 80% della svalutazione rispetto al dollaro è spiegato col differenziale tassi di interesse. Infatti il Remimbi non è indebolito rispetto a altre monete, come per esempio rispetto allo yen giapponese.
Altro falso allarme riguarda la riduzione delle esportazioni cinesi, -12,9%.
Qui la disinformazione (voluta o meno) è plateale. Nell’ultimo congresso del Partito Comunista Cinese si è infatti deciso di correggere la tendenza di puntare sulle esportazioni e di produrre di più, invece, per la domanda interna, passando da una crescita prevalentemente quantitativa a una più attenta alla qualità della vita e dell’ambiente. E siccome i comunisti in Cina non fanno chiacchiere questo cambiamento di obiettivi ha prodotto il risultato che la propagante occidentale denuncia come una debolezza, omettendo di dirci che la differenza netta fra esportazioni e importazioni è ancora fortemente attiva, il che non dovrebbe testimoniare per una cattiva salute di quell’economia.
Infine viene il problema della bolla immobiliare cinese, anch’essa un dato di fatto. Ci stanno raccontando la storia che la prossima recessione sarà innescata dalla Cina. Cerchiamo di capire cosa sta davvero succedendo.
Secondo l’economista americano David Paul Goldman[6], il problema della Cina non è la finanza, ma un altro. Quasi 700 milioni di cinesi sono emigrati dalla campagna alla città e ciò ha determinato «il più grande boom fondiario della storia»: il settore immobiliare è cresciuto fino a raggiungere oltre un quarto del Pil cinese. Anche gli utili di quel settore sono cresciuti, e in misura ancora maggiore sono cresciute le aspettative di utili futuri, innescando una corsa speculativa. Come avviene nei momenti di euforia le aspettative sono andate oltre il ragionevole e decine di milioni di metri quadri di abitazioni costruite sono rimasti invenduti, generando perdite a chi aveva avventatamente investito troppo. Fra questi anche alcuni governi locali.
La Cina, per togliere dalla povertà assoluta quasi un miliardo di persone, ha dovuto fare dei compromessi con il capitale privato, un po’ come dovette farli Lenin con la Nep. Oggi i condizionamenti del mercato, i rigonfiamenti delle bolle e le trasmissioni delle crisi mondiale sono assai più rilevanti che ai tempi di Lenin. Per questo il governo di Pechino ha reso più stringenti gli standard dei prestiti immobiliari, e ciò ha messo in difficoltà alcune società che vi speculavano.
I principali operatori cinesi del settore, Evergrande e Country Gardens, non sono riusciti a effettuare i pagamenti alle scadenze previste dalle obbligazioni e Zhongzhi Enterprise sta ristrutturando il suo debito. A spanne l’ordine di grandezza delle passività a rischio per l’insieme delle tre imprese è dei mille miliardi di dollari.
Lo slogan del governo è stato «Le case sono per vivere, non per la speculazione» e il Partito Comunista Cinese vuole superare il problema centralizzando le finanze pubbliche e imponendo la disciplina fiscale ai governi locali.
Secondo le stime di Goldman il governo centrale potrebbe intervenire per coprire le perdite quando vuole spendendo solo l’1% delle entrate fiscali, ma preferisce che questa crisi contribuisca a rimettere in ordine la finanza. Né l’importo delle insolvenze preoccupa più di tanto. Le imprese appartenenti ai governi locali hanno un patrimonio stimato di circa 210 trilioni di Renminbi, contro i circa 50 di passività. La copertura è quindi fuori discussione.
La diversità con la situazione del 2008 negli Stati Uniti è enorme. I mutui cartolarizzati ammontavano a circa 2 trilioni di dollari, il loro valore aveva raggiunto il 90%, della copertura ipotecaria. Quando il valore di questi debiti si dimezzò, il divario fra debiti e garanzie divenne incolmabile. La Federal Reserve intervenne solo con salvataggi e inondando il sistema di liquidità, creando così le condizioni per la formazione della successiva bolla speculativa.
In Cina invece i debiti ipotecari ammontano a meno del 40% del valore delle proprietà immobiliari finanziate. Il valore delle partite a rischio è quindi molto più piccolo del complesso della attività. Sono da escludere perciò problemi sistemici. Inoltre la Cina non ha un mercato dei subprime, elemento chiave della crisi americana del 2008.
Una conferma che i mercati non considerano pericolosa la bolla viene dal fatto che le quotazioni dei titoli a copertura dei rischi, i famosi CDS (Credit Default Swap), una sorta di assicurazione sui rischi di insolvenza, sono state stabili e intorno al loro minimo storico. Se queste assicurazioni costano poco è segno che gli speculatori, spesso meglio informati dei premi Nobel dell’economia, non prevedono grandi sconvolgimenti. Ugualmente senza scossoni e in lieve aumento è l’indice delle borse di Shanghai e Shenzhen.
C’è da rilevare infine che ben diverso è il peso dei mercati finanziari in Cina rispetto all’Occidente.Mentre dalle nostre parti le transazioni puramente speculative sono 100 volte quelle che hanno per oggetto merci reali, in Cina questo rapporto è 1 a 4 e il mercato dei derivati è appena l’1% del globale.
È ancora più importante il confronto fra le posizioni debitorie dei paesi. Gli Stati Uniti hanno una posizione finanziaria netta passiva per 18 mila miliardi e con ciò sono esposti ai capricci dei creditori internazionali, fra cui proprio la Cina, la quale, al contrario, è una creditrice netta per circa 4.000 miliardi di dollari sul resto del mondo, oltre ad avere diritto su circa la metà degli attivi di Singapore.Anche se si azzerasse il valore delle azioni Evengrande, la perdita sarebbe riassorbibile agevolmente. Infatti i paesi in forte surplus commerciali e alti livelli di risparmio non hanno crisi finanziarie.
Inoltre il sistema bancario, sotto stretto controllo governativo, sarebbe in grado di concedere, senza rischi, nuovi prestiti se le decisioni politiche si orientassero in tal senso.
Ma l’elemento dell’economia cinese di maggior forza e decisivo è proprio quello che Tremonti denuncia come elemento di debolezza, cioè la “mancanza di libertà”. Infatti in Cina le scelte di fondo non sono demandate all’anarchia dei mercati e alla “libertà” dei capitali di muoversi a loro piacimento, ma sono determinate da scelte politiche. Il sistema bancario e i principali settori produttivi strategici sono sotto controllo pubblico. Anche il lancio ufficiale dello yuan digitale ha fra gli scopi quello di tagliare l’erba sotto i piedi alla crescita speculativa delle criptovalute.
Di fronte alla crisi delle banche Usa la Federal Reserve può tutt’al più manovrare il tasso di interesse, ma può farlo e sotto il vincolo dei disastrosi conti con l’estero; e infatti anziché ridurre il tasso, come sarebbe necessario per ridurre i fallimenti, lo ha dovuto aumentar per sostenete il dollaro. Oppure può fornire liquidità alle banche acquistando titoli in loro possesso, ma ciò non può durare a lungo, senza il pericolo una nuova bolla.
In Cina è tutt’altra musica perché comanda la politica, non i mercati. Lo ammette a denti stretti Fabio Carbone il quale, pur disperandosi per la cosa, deve constare che non siamo di fronte al caso di Lehman Brothers. «Qui il partito comanda su tutto e le regole di libero mercato sono sottomesse, quindi la Cina potrebbe anche scegliere strade “insolite” per un paese democratico ma che potrebbero avere la capacità di evitare un tracollo del sistema immobiliare cinese».
Se lo dice lui…
Il vertice dei paesi del BRICS di Johannesburg ha sancito due elementi importanti. La creazione di un sistema di pagamenti internazionale che può fare a meno del dollaro, il quale pertanto sarà meno gettonato anche nelle riserve delle banche centrali e l’allargamento a 11 del gruppo iniziale, con altre decne di nazioni che intendono hanno richiesto o richiederanno di inserirvisi.
Il nuovo sistema di pagamento non dovrebbe esser impiegato solo dai Brics e dai nuovi candidati, ma sarebbe utilizzabile da qualsiasi altro paese lo desideri, mettendo in discussione la supremazia del dollaro che fino a oggi aveva consentito agli States di vivere alle spalle del resto del mondo stampando moneta.
Fra i paesi già accolti nell’organizzazione ci sono l’Arabia Saudita, l’Iran e gli Emirati i quali, uniti alla Russia e alla candidata Algeria, detengono le maggiori risorse energetiche del mondo. In tal modo viene meno il motivo principale, accanto a quello costituito dalla potenza militare Usa, del dominio del dollaro, cioè il suo uso esclusivo per acquistare petrolio (i famosi petrodollari).
Il vertice ha sancito una dinamica già avviata: la moneta cinese aveva già superato il dollaro nelle transazioni bilaterali della Cina e diversi acquisti di petrolio si stavano già effettuando con pagamenti in valute nazionali.
Si va riducendo anche la detenzione di titoli del debito Usa da parte di Cina, Arabia Saudita ed altri e ciò costituisce una causa di fondo dei guai finanziari e dei fallimenti che si stanno registrando negli Stai Uniti, con ripercussioni importanti nella finanza internazionale. L’aumento dei tassi Usa, che ha determinato le difficoltà di alcune grandi banche statunitensi e non solo, è una risposta alla difficoltà di collocare il debito pubblico e alla perdita di competitività del dollaro. Tale aumento ha anche ripercussioni nella solvibilità di altre imprese, soprattutto quelle indebitate, che devono affrontare un aumento dei costi per interessi. I fallimenti sono oltre 400 nei primi sei mesi di quest’anno, un livello paragonabile a quello registrato nel corso della crisi del 2008.
La crisi, a differenza che in Italia, sta anche rilanciando la lotta di classe e, nonostante la natura non conflittuale e corporativa dei sindacati Usa, si stanno sviluppando importanti lotte e rivendicazioni. Quest’anno le ore di sciopero hanno nettamente superato quelle degli ultimi anni.
Quello che fino a ieri era il leader economico mondiale non lo è più perché la Cina ormai sta superando gli Stati Uniti anche sul piano tecnologico, recuperando velocemente anche nei settori in cui era in ritardo, come quello dei chips, e già è al primo posto nella graduatoria del Pil a parità di potere d’acquisto.
L’altra stampella su cui si reggeva la supremazia del dollaro è quella militare che si è infranta in Afghanistan e si sta infrangendo nella guerra contro la Russia per interposta Ucraina.
Le cose stanno andando diversamente dalle aspirazioni dell’imperialismo e perfino in Africa, si veda il caso il Niger, è oggi possibile chiedere gentilmente a Francia e Usa di togliere il disturbo.
Per non ammettere il fallimento e la crisi in cui è impantanato il sistema capitalistico mondiale, si cerca un capro espiatorio di comodo, come fu l’epidemia di Covid nella precedente crisi e ci viene nascosta un’altra realtà, cioè che che la risposta americana alle proprie difficoltà è anche la strategia di aggressione non solo ai paesi “nemici” ma anche al sistema produttivo europeo, demolendolo e cercando di fagocitarlo con il blocco alle importazioni di prodotti energetici russi e con l’Inflation Reduction Act, consistente in enormi aiuti finanziari alle nuove imprese Usa “green”. Che poi green non lo sono e non sarebbe sorprendente una bella e originale bolla green.
Concludo permettendomi una riflessione personale. Per fortuna il Pc Cinese ha intrapreso la strada del compromesso col capitalismo, altrimenti, probabilmente, non si sarebbero aperte le prospettive di transizione al socialismo in buona parte del globo come invece si stanno aprendo. Il settore privato è cresciuto però fino a oggi a un ritmo superiore a quello pubblico. Il maggiore rilievo economico del settore capitalistico privato potrebbe tradursi in maggiore rilievo politico, nonostante le rigorose regole e il forte controllo da parte del Partito Comunista Cinese. Molto, immagino, dipenderà dagli esiti della lotta di classe in Cina.
Non spetta certo a noi italiani, che abbiamo azzerato clamorosamente il patrimonio del movimento comunista, indicare la strada da percorrere. Ma la gravissima crisi del capitalismo internazionale ci indica che ora, raggiunto un livello di “prosperità media”, un elevatissimo livello di capitalizzazione e tecnologico, potrebbe essere il momento di ridurre, con gradualità, gli spazi del capitale e accrescere il peso dell’economia consapevolmente gestita,rendendo sempre più marginali i meccanismi spontanei del mercato, visto che la “mano invisibile” di smithiana memoria ha funzionato per secoli ma ora è al capolinea e che la stessa Cina è raggiunta dai primi segnali delle turbolenze connaturate al capitalismo.
É ancora troppo presto per questa svolta? Può darsi. Ma credo che un compito dei compagni cinesi debba essere quello di attrezzarsi per invertire al momento giusto quella tendenza fin qui necessaria.
[1]Si veda l’intervista di Rogoff apparsa sulla “Repubblica” del 18/08/2023, Da Pechino una dose eccessiva di debiti: le conseguenze possono essere dolorose per tutti., autore Eugenio Occorsio.
[2]Di nuovo è Occorsio che intervista Shiller, Se la crisi peggiora le Borse pagheranno per prime, intervista a Robert Shiller, premio Nobel docente a Yale, “La Repubblica” 21/08/2023
[3]Gianluca Zapponini, I mali dell’Occidente e quella sfida che i Brics non possono vincere. Parla Tremonti, colloquio con l’ex ministro dell’economia.
[4] S. Pieranni, Il vero pericolo per la Cina è un popolo disilluso, “Il Manifesto”, 20/08/23.
[5]C. Marazzi, Diario della crisi/Gli spettri del debito cinese, “Machina”, 30/08/2023.
[6]Si vedano D.P. Goldman, The China contagion that never was. Markets aren’t worried about China contagion – and you shouldn’t be, either, in “Pakistan Defence”, 19/08/2023 e, dello stesso autore, Property shakeout Beijing’s tool to fight fiefdoms. There’s no financial crisis in China, just a political standoff over local government finances, in “Pakistan Defence”, 18/08/2023.