di Geraldina Colotti
“È un rampollo dell’oligarchia. Dietro di lui c’è una delle famiglie più potenti, che possiede l’impresa Exportadora Bananera Noboa, e che ha beneficiato delle entrature politiche e delle leggi fatte apposta per proteggere gli interessi capitalistici. È la prima in classifica quanto a debiti fiscali, poiché deve allo stato 88, 5 milioni di dollari”.
Volto giovane, interessi vecchi. In Ecuador ha vinto il neoliberismo. Dopo il banchiere Guillermo Lasso – che, il 16 maggio, ha preferito sciogliere la Camera per evitare di essere messo sotto accusa per malversazione di fondi pubblici, applicando il meccanismo istituzionale della “muerte cruzada”, che consente di indire elezioni anticipate -, arriva un imprenditore, Daniel Noboa, figlio dell’uomo più ricco del paese, più volte candidato alla presidenza. La vicepresidenta è Veronica Abad, una “libertariana” che guarda all’estrema destra argentina, al trumpismo di Javier Milei.
Con il 94% delle schede scrutinate risulta che, al secondo turno di domenica 15 ottobre, su 13,5 milioni di aventi diritto, 515.022 (il 52,02%) hanno votato per Noboa, contro le 475.0768 preferenze (il 47,98%) ottenute dalla formula di sinistra, che proponeva Luisa Gonzalez alla presidenza e Andrés Arauz come vice, e che al primo turno del 20 agosto aveva ricevuto il 33% dei voti.
Dopo una campagna in sordina che, al primo turno, gli ha consentito di rimanere al riparo dalle polemiche, e di non essere attaccato neanche per l’accusa di maltrattamenti rivoltagli dall’ex moglie, Naboa era arrivato secondo, raccogliendo il 23,6 % dei suffragi. Era apparso come l’outsider, la sorpresa in grado di raccogliere consensi “bipartisan”. E ora ha vinto, presentando il modello del giovane imprenditore di 35 anni, che si è “fatto da sé” e che ha saputo parlare alle giovani generazioni.
Niente di più falso. È un rampollo dell’oligarchia. Dietro di lui c’è una delle famiglie più potenti, che possiede l’impresa Exportadora Bananera Noboa, e che ha beneficiato delle entrature politiche e delle leggi fatte apposta per proteggere gli interessi capitalistici. È la prima in classifica quanto a debiti fiscali, poiché deve allo stato 88, 5 milioni di dollari.
Secondo la stampa brasiliana, il nome di Daniel Noboa figura nell’inchiesta dei Pandora’s Papers, che ha rivelato la gigantesca rete di evasione fiscale delle grandi imprese a livello internazionale. Un’accusa che era già stata rivolta alla sua vice, Verónica Abad. La quantità di denaro che l’imprenditore trasferisce all’estero non collima con la modesta cifra che dichiara al fisco.
Ma questo non è bastato. L’imprenditore è riuscito a coagulare i grandi interessi che sono tornati a tenere in pugno il paese dopo i dieci anni di governo della Revolución Ciudadana, che avevano trasformato l’Ecuador. Il programma su cui Noboa ha fatto campagna elettorale è di chiaro stampo neoliberista. Non è mancata, però, una punta di ambientalismo, per pescare nel bacino elettorale che ha detto sì al referendum per far cessare lo sfruttamento del Bloque 43-ITT.
Si tratta di uno dei giacimenti situato nel Parco nazionale Yasuní, una riserva di biodiversità situata nell’Amazzonia ecuadoriana. La proposta era stata presentata anche per mettere un’altra spina nel fianco alla candidata correista, che comunque aveva dichiarato fin dall’inizio che avrebbe rispettato i risultati del voto popolare. La vicenda del Parco Yasuní, che Rafael Correa avrebbe voluto lasciare incontaminato lanciando la proposta di una compensazione internazionale, è diventata materia di scontro politico durante gli ultimi anni del suo governo.
Noboa dovrà fare quindi a meno di una produzione media di 58.000 barili di petrolio al giorno, ossia circa l’11% del totale della produzione petrolifera del paese, che si aggira intorno ai 480.000 barili. L’Ecuador, è un paese di 17,8 milioni di abitanti, che si estende su una superficie di 256.370 km quadrati, dollarizzato dal 2000. Ha un debito estero di 46.351 milioni di dollari, che va in crescendo dopo il devastante terremoto del 2016, che ha consentito il ritorno dell’Fmi, senza più freni dopo la fine dei governi di Correa. L’economia ecuadoriana dipende principalmente dalla esportazione di petrolio, e poi da quella di gamberetti, banane, pesce in scatola, fiori naturali e cacao. Le vendite estere si dirigono principalmente agli Stati uniti e all’Europa, con la relativa vulnerabilità che questo comporta nelle entrate, per via della fluttuazione dei prezzi di questi prodotti nei mercati internazionali.
Si calcola che lo sfruttamento di quella porzione di Parco, il Bloque 43-ITT, porterebbe circa 1.200 milioni di dollari. Una cifra contestata dagli ambientalisti, che propongono di sostituirla con un’imposta sulla rendita. Intanto, il portavoce del collettivo Yasunidos, Pedro Bermeo, ha diffuso sulle reti sociali un video in cui il banchiere Lasso dichiara che il referendum è “inapplicabile” e che farà di tutto affinché le trivellazioni continuino. Come si sia potuto pensare che il capitalista Noboa, arrivi a penalizzare le sue ricchezze, è un mistero. Potenza della propaganda, che induce gli sfruttati a identificarsi con gli sfruttatori.
E così, sebbene il movimento indigeno Pachakutik non abbia preso una posizione ufficiale, alla vigilia del secondo turno vi sono state dichiarazioni secondo cui la sua parte giovanile avrebbe votato Noboa, che ha corso per il partito Acción Democrática Nacional (Adn). In coalizione, c’erano sia Pueblo, Igualdad y Democracia (Pid), una formazione fondata dal cugino dell’ex presidente Lenin Moreno, che si definisce di centrosinistra, sia Mover, il nome adottato da Alianza País, il partito a cui apparteneva Correa, e che ha cambiato nome dopo la rottura con Moreno.
Noboa è apparso così alla guida di una forza centrista, capace di superare lo scontro tra opposti schieramenti, in grado di raccogliere i voti sia degli indecisi, che di quanti, anche a sinistra, hanno invitato al “voto nullo” per avversione al “correismo”. Erano, invece, in gioco, due diversi modelli di paese: quello neoliberista, con varie modulazioni di frequenza, e un modello inclusivo e anticoloniale, integrato nel progetto della Patria Grande, attento alla difesa dei diritti dei settori popolari, rappresentato da Luisa Gonzalez e dal partito Revolución Ciudadana.
In un paese impoverito e con un altissimo tasso di disoccupazione, il programma di Luisa ha promesso di rafforzare lo Stato, incentivare le opere pubbliche, usare la riserva fiscale per far fronte alle urgenze, garantire e ampliare i diritti, rafforzare le coperture sociali e aumentare i fondi per la prevenzione dei disastri naturali, e rispettare la Costituzione. Rispetto all’obiettivo di “democratizzare l’economia”, Gonzalez ha proposto, tra le altre cose, un piano di “giustizia economica con pari opportunità”, mediante il rafforzamento dei meccanismi di protezione dei consumatori, la democratizzazione dell’accesso alle risorse finanziarie nella banca pubblica e la diminuzione dei tassi di interessi”, con l’immissione nell’economia di 2.500 milioni di dollari per il settore pubblico.
Un altro punto importante del suo programma, ha riguardato il lavoro delle donne, che dovrebbe svolgersi – ha detto Luisa – in un ambiente di pari opportunità e libero da violenza e stalking, e la protezione della maternità e il riconoscimento del lavoro di cura e della crescita dei figli. Inoltre, era stata prevista una entrata economica e un’alternativa abitativa per le donne vittime di violenza, e misure per combattere la violenza domestica e sessuale.
Ecuadoriane e ecuadoriani hanno potuto accedere alle urne dalle 7 di mattina (ora locale) alle 17. Il 12 ottobre avevano votato i detenuti in attesa di giudizio, in 35 dei 39 centri penitenziari che si trovano in 20 province del paese. In totale, 4.756 persone, 2.484 delle quali solo a Guayas, la provincia con la popolazione carceraria più numerosa. Il paese conta 53 carceri, che in totale hanno la capacità di contenere 30.000 persone, ma ne detengono 1.187 in più.
Il 16% dei reclusi non è ancora passato in giudizio.
Le prigioni, in Ecuador, sono diventate vere e proprie polveriere. Dal 2020, vi sono state oltre 400 morti in una serie di massacri dovuti a proteste o scontri fra bande.
A luglio, il presidente Guillermo Lasso ha decretato lo stato d’emergenza nelle carceri per 60 giorni. Una violenza non solo carceraria, ma diventata endemica nel paese che, in 5 anni, è passato da una media di 5,8 omicidi intenzionali ogni 100.000 abitanti a 25,32 nel corso del 2022, arrivando a una cifra di oltre 3.500 morti.
Sono stati uccisi anche diversi politici, giudici, pubblici ministeri e candidati, com’è accaduto al giornalista Fernando Villavicencio, del Movimento Construye, ucciso il 9 agosto dopo un comizio elettorale a Quito, la capitale, e sostituito poi dal collega Christian Zurita. Durante la campagna elettorale sono stati assassinati anche Pedro Briones, del Movimiento Revolución Ciudadana, ucciso il 14 agosto nella sua abitazione, e un candidato della lista del conservatore Otto Sonnenholzner, Rider Sánchez Valencia, il 16 agosto. Sette colombiani accusati per l’omicidio di Villavicencio sono stati ammazzati in carcere a ottobre.
Al primo turno, Luisa Gonzalez, unica donna fra 4 rappresentanti di altrettante declinazioni della destra (Otto Sonnenholzner, Xavier Hervas, Daniel Noboa Azin e Jan Topić), ha avuto più di un argomento di campagna elettorale sul tema della sicurezza. Ha proposto un nuovo modello, basato sulla prevenzione, sulla riduzione dlela violenza e sulla convivenza pacifica, risolvendo, insomma, le cause che producono la violenza.
Dati alla mano, ha infatti potuto mostrare il baratro in cui è precipitato il paese dopo la fine dei governi correisti e il tradimento di Lenin Moreno (che Correa aveva candidato), trasformandosi da uno dei paesi più sicuri dell’America Latina, a uno dei più insicuri al mondo. Tuttavia, proprio sul tema della sicurezza si è scatenata la canea della destra per chiedere “mano dura” sul modello di Bukele in Salvador, a cui si è esplicitamente richiamato uno dei candidati, Jan Topić. L’unico che ha espresso fin da subito la decisione di far convergere i suoi voti su Nalboa, anche se la spinta a coalizzarsi contro “il correismo” è stata forte in tutti i settori della destra, e anche in una parte della sinistra.
A caratterizzare la campagna elettorale, sia al primo turno che al secondo, sono state denunce, calunnie e colpi bassi, che hanno avuto per bersaglio Luisa Gonzalez. Subito dopo l’omicidio di Villavicencio, adducendo presunte dichiarazioni di un testimone in carcere, il suo sostituto Zurita ha affermato che il mandante dell’assassinio era il “governo di Correa”. Una campagna sporca “per impedirmi di vincere le elezioni – ha denunciato Gonzalez – Sono 6 anni – ha detto – che non siamo al governo. Per favore, ecuadoriani, basta odio e menzogne. Le elezioni si devono vincere con proposte, con amore per la Patria, non con odio e con paura. È necessario cambiare questo paese nel profondo”.
Un appello rimasto inascoltato. E se su Noboa non hanno pesato le denunce per maltrattamenti presentati dalla sua ex moglie, su Luisa, che ha subito anche un’aggressione, si sono concentrati gli attacchi della destra, che ha cercato di impedire con ogni mezzo il ritorno della Revolución Ciudadana: perseguendo il progetto diretto per dieci anni da Rafael Correa attraverso il lawfare, l’uso della magistratura a fini politici, che ha inabilitato i dirigenti, messo fuori gioco il simbolo e incarcerato i militanti.
Già dal tradimento di Moreno e dal mutamento di indirizzo nella politica internazionale, la presenza nordamericana sul territorio è tornata a essere consueta. Così, nel caso di Villavicencio è entrato anche l’Fbi. Il segretario di stato Usa, Anthony Blinken ha promesso 5 milioni di dollari a chi fornirà informazioni utili all’inchiesta, mostrando quanto l’Ecuador sia sotto tutela Usa.
La nuova presidenza durerà comunque solo 16 mesi, fino al prossimo maggio. Il tempo per concludere il mandato del banchiere Lasso. Intanto, il correismo ha già dalla sua 48 municipi conquistati nelle elezioni regionali di febbraio scorso, incluse le città più grandi del paese, Quito e Guayaquil. Numeri in grado di contrastare, soprattutto con la mobilitazione popolare, le politiche della destra, in vista delle elezioni presidenziali del 2025.
* Giornalista; direttrice de “Le Monde Diplomatique”, supplemento de “Il Manifesto”; del Gruppo “Questioni Internazionali e relazioni internazionali” del Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”.