di Carlo Formenti
Negli ultimi decenni l’America Latina ha ospitato processi rivoluzionari che hanno sfidato l’egemonia nordamericana. Si è trattato di lotte antimperialiste, per la liberazione nazionale e il diritto allo sviluppo, che in alcuni casi hanno assunto valenze anticapitaliste e imboccato la via del socialismo. Diversamente dalla Cina, un paese di dimensioni continentali che non è una nazione in senso convenzionale ma uno stato-civilizzazione, il subcontinente latinoamericano è un mosaico di nazioni e culture che, ancorché unificate dall’omogeneità linguistica e dall’aver subito la colonizzazione da parte di un’unica potenza europea (ad accezione del Brasile), presentano significative differenze di storia, tradizioni e culture. Se aggiungiamo la presenza di una consistente quota di discendenti dell’originaria popolazione autoctona e degli schiavi importarti dall’Africa, è evidente che anche la composizione etnica è assai più variegata di quella cinese. Altre importanti differenze riguardano: 1) mentre in Cina non esiste una fede religiosa in grado di contendere il primato alla politica, in America Latina la presenza e il peso della Chiesa Cattolica (e di altre confessioni cristiane in rapida crescita) è enorme e gioca un ruolo importante a sostegno delle forze della reazione o di quelle della rivoluzione; 2) laddove la modernità cinese è stata fin dall’inizio diversa da quella occidentale, quella latinoamericana ha subito il forte influsso delle culture europee e nordamericane; 3) infine la rivoluzione cinese è frutto di una vittoria militare e ha sviluppato un sistema politico fondato su un unico partito, mentre i processi rivoluzionari latinoamericani sono passati attraverso competizioni elettorali rispettose delle regole liberal democratiche.
Se in alcuni Paesi del Sudamerica le forze rivoluzionarie sono riuscite a conquistare il potere pacificamente, è perché la tradizione liberale importata dall’Europa non ha generato sistemi politici capaci di rappresentare la società, per cui le élite al potere esercitano un’egemonia fondata sul puro dominio. Gli stati postcoloniali non hanno offerto reali opportunità di partecipazione politica alle masse popolari. Inoltre, quando tali opportunità sono sembrate a portata di mano, sono state stroncate da golpe militari. Negli ultimi decenni del secolo scorso, le nuove condizioni dell’economia mondiale generate dal processo di globalizzazione hanno tuttavia favorito la sostituzione delle dittature con governi democratici, senza però risolvere le debolezze strutturali dei regimi liberali, i quali, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, hanno attraversato una serie di crisi radicali, statuali, più che governative. In alcuni Paesi ciò ha innescato rotture populiste guidate da nuove formazioni politiche che perseguivano programmi antiliberisti.
A innescare le rivolte sono stati i tagli alla spesa pubblica e le privatizzazioni imposte dalle istituzioni del Washington Consensus e le loro conseguenze sui livelli di vita delle classi subalterne[1]. Il discredito di cui godevano classi politiche inefficienti e corrotte le ha rese incapaci di gestire questi conflitti. Nel frattempo, a partire dai primi anni Novanta, in sintonia con il cinquecentenario della “scoperta”[2] dell’America, nella regione andina maturava una svolta “etnicista” del movimento contadino in conseguenza della quale le tradizionali rivendicazioni sindacali si sono arricchite di istanze come il riconoscimento della natura plurinazionale e plurilinguistica di Paesi come la Bolivia e l’Ecuador. In questo contesto il concetto di buen vivir, espressione di una cultura indigena comunitaria, solidale, democratica, ispirata a valori ambientalisti, è assurto a modello anche per i nuovi movimenti sociali. A favorire il successo delle rotture populiste ha contribuito il mancato intervento repressivo degli eserciti, che in Venezuela si sono schierati al fianco delle rivolte. Questo giro a la izquierda ha riattivato fra gli intellettuali marxisti sudamericani il dibattito in merito alla possibilità di arrivare al socialismo attraverso le riforme, piuttosto che per via rivoluzionaria. Come vedremo, lo scenario latinoamericano è troppo vasto, articolato e contraddittorio per accreditare un giudizio definitivo sul tema.
Ecuador, Bolivia, Venezuela
Nel corso degli anni Novanta e dei primi anni Duemila le minoranze indigene ecuadoriane organizzate nella CONAIE hanno inscenato una serie di insurrezioni pacifiche: immense folle si radunarono nella capitale convergendo da ogni angolo del Paese. Oltre a contestare le politiche liberiste, il movimento rivendicava la ridistribuzione delle terre e il riconoscimento del carattere plurinazionale e plurilinguistico dello Stato. Queste sollevazioni provocarono la caduta di una serie di governi, ma l’egemonia dei movimenti indigeni venne meno dopo che laCONAIE decise di appoggiare il golpe del colonnello Lucio Gutierrez, il quale, accolto come un nuovo Hugo Chávez, proseguì invece le politiche neoliberiste dei predecessori. A guidare le rivolte successive fu quindi un composito schieramento di soggetti politici e sociali: nuovi movimenti, sinistre tradizionali, ampi strati della piccola e media borghesia urbana, una massa eterogenea amalgamata dal rifiuto dei partiti,dall’anti liberismo, dalla sfiducia nei confronti delle istituzioni e dall’odio nei confronti di una élite politica corrotta.
Raphael Correa, un economista cattolico di sinistra, venne convinto a presentarsi alle elezioni presidenziali del 2006 da un gruppo di intellettuali che lo aiutarono a stilare un programma elettorale fondato su cinque pilastri: rivoluzione costituzionale; rivoluzione morale; rivoluzione economica; rivoluzione educativa e sanitaria; difesa della sovranità e della dignità nazionali. Per coordinare la sua campagna fondò Alianza País, una macchina elettorale imperniata su una rete di comitati civici locali dai quali vennero esclusi i partiti e, dopo la vittoria, convocò l’Assemblea Costituente che nel 2008 promulgò la nuova Costituzione. Confermato nel 2009 e nel 2013, rimase in carica fino al 2017.
La rivoluzione correista – che si autodefinì ciudadana e non socialista – non ha coltivato velleità anticapitaliste. Pur sfidando le regole del Washington Consensus, e pur impegnandosi nella lotta alla povertà attraverso politiche sociali, riforme fiscali e investimenti pubblici, il governo ha sempre chiarito di voler combattere gli eccessi del capitalismo selvaggio, non il capitalismo in quanto tale. Il mantenimento della base estrattivista (il petrolio era e resta la più importante risorsa del Paese) veniva considerato condizione indispensabile per finanziare le politiche sociali e gli investimenti infrastrutturali. Per dirla con il leader dell’opposizione di sinistra Alberto Acosta, la filosofia indigena del buen vivir continuò a essere agitata come uno slogan di marketing politico, più che assunta a principio guida della politica governativa[3]. Né trovò applicazione il principio costituzionale che prevedeva la redistribuzione delle terre e la promozione della sovranità alimentare attraverso il sostegno pubblico alla piccola e media impresa e alle comunità produttive indigene[4].
Malgrado le accuse rivoltegli dall’opposizione di sinistra, il governo è riuscito a mantenere un elevato livello di consenso grazie alla democratizzazione delle rendite petrolifere e alla riforma fiscale, che hanno permesso di ridurre povertà e disoccupazione, a massicci investimenti infrastrutturali e all’estensione dei servizi sanitari ed educativi alle classi meno abbienti, Questa linea politica ha consentito a Correa di essere rieletto nel 2013 con il 57% dei voti, ma una situazione internazionale caratterizzata dal crollo del prezzo del greggio, dal prolungarsi della crisi e dall’arretramento delle forze progressiste negli altri Paesi dell’America Latina lo ha messo in difficoltà. Per mantenere certi livelli di spesa sociale avrebbe dovuto aumentare la pressione fiscale sugli strati sociali medioalti. Ci ha provato, ma è stato costretto a fare retromarcia dalle mobilitazioni della destra. Il suo “delfino”, Lenin Moreno, è ugualmente riuscito a succedergli alla presidenza, battendo di misura le destre, dopodiché ha imboccato la strada della normalizzazione neoliberista, mentre il Paese precipitava progressivamente in una situazione caotica caratterizzata da crescenti tassi di violenza.
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Nel 2000 la Bolivia fu teatro della cosiddetta guerra dell’acqua (una vasta mobilitazione popolare contro la privatizzazione), nel corso della quale nacquero i primi nuclei territoriali di un blocco nazional popolare; nel 2003 fu definito un programma di trasformazione strutturale che nel 2006 portò all’elezione di Evo Morales, il primo presidente indigeno della storia repubblicana; infine nel 2008 fu approvata la nuova Costituzione. Fra le differenze più significative rispetto al processo ecuadoriano vanno segnalati: 1) il peso più consistente della componente indigena che ne ha reso più salda e plausibile l’egemonia politico culturale; 2) il fatto che la crisi del sindacato, provocata dalle ristrutturazioni neoliberiste e dalla svolta etnicista dei movimenti indigeni, ha favorito l’emergenza di forme di mobilitazione di carattere antisistemico.
Álvaro Linera è autore un’approfondita analisi[5] del processo di ristrutturazione neoliberista che ha innescato le rivolte in Bolivia. Abbandonate le strategie di modernizzazione che puntavano alla sostituzione delle tradizionali forme produttive urbane e agricole, il nuovo ordine imprenditoriale si è strutturato come anello di congiunzione fra il flusso finanziario globale e le reti locali dell’economia informale, fondate su lavoro a domicilio e comunità familiari. È nato così un modello di accumulazione ibrido che unificava in forma gerarchizzata strutture produttive tradizionali attraverso complessi meccanismi di subordinazione di reti produttive domestiche, comunitarie, artigiane, contadine e microimprenditoriali. La classe operaia boliviana aumentò di numero, divenendo però più frammentata e precarizzata. Viceversa la comunità contadina, ancorché parzialmente inglobata nelle relazioni di mercato, non subì processi di stratificazione sociale radicali ed irreversibili, conservando al proprio interno relazioni fondate sulla reciprocità e sulla solidarietà. Questi soggetti tradizionali, a partire dalle lotte contro i tentativi di appropriazione capitalistica dei beni comuni come l’acqua, riuscirono a costruire organismi di democrazia diretta e partecipativa in grado di unificare e mobilitare altri soggetti sociali. In questo modo è nato un potere politico fondato su nodi locali (cabildos) che si è rivelato capace di sfidare il potere dello stato, occupando i territori e sottraendoli al controllo di prefetti, sindaci e stazioni di polizia.
Queste istituzioni alternative hanno gestito tutto il percorso politico che va dalla guerra dell’acqua all’elezione di Evo Morales, anche se va sottolineato che le loro strutture orizzontali non avrebbero potuto vincere in assenza del principio di verticalizzazione incarnato dal MAS (Movimento al Socialismo) guidato da Morales. Questa forza politica, diversamente dall’Alianza País di Correa, non è solo una macchina elettorale ma un vero partito politico che, per conquistare il potere, ha saldato due diversi blocchi sociali: da un lato, le associazioni e i movimenti indigeni e urbani, affiancati e sostenuti (anche se non diretti) dai partiti e dai sindacati della sinistra tradizionale; dall’altro, ceti medi, gruppi imprenditoriali, partiti democratici. È stato dunque elaborato un programma capace di tenere insieme interessi differenti, anche se non incompatibili: nazionalizzare le imprese strategiche senza intaccare gli interessi della piccola – media imprenditoria; promettere un cambio di matrice produttiva senza rinunciare a praticare politiche estrattiviste (indispensabili per finanziare la spesa sociale) ma anche senza scontentare le istanze ambientaliste delle comunità indigene. Per realizzare questa quadratura del cerchio, si è sviluppata una concezione “pattista” del potere, fondata sulla contrattazione permanente fra i vari interessi. A tale scopo, il MAS si è dotato di una struttura federativa, assumendo la forma di una “associazione di associazioni”[6].
La fase postrivoluzionaria iniziò, come in Ecuador, con l’approvazione della nuova Costituzione. Quest’ultima è un testo lungo e complesso che, come quello della Costituzione ecuadoriana, incorpora principi avanzati in materia di diritti sociali, civili e politici: parità di genere e fra culture; diritto universale all’assistenza sanitaria e all’istruzione fino ai livelli superiori; diritto a un reddito dignitoso; diritto di manifestazione e diffusione del pensiero; riconoscimento di forme di proprietà alternative alla proprietà privata individuale; tutela dell’ambiente e dei beni comuni; transizione verso un’economia cooperativa e solidale; decentramento amministrativo e sviluppo di istituzioni di democrazia diretta e partecipativa; sovranità alimentare; sovranità nazionale e rifiuto delle ingerenze straniere sul piano economico, politico e militare; riconoscimento dei diritti della natura associati alla visione del buen vivir. Gli sviluppi successivi, dal golpe di destra del 2019 al ritorno al potere del MAS, verranno decritti più avanti.
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Intervistato da Geraldina Colotti[7], il console del Venezuela a Napoli spiega che la rivoluzione bolivariana “Non è il modello cubano, che ha costruito un movimento guerrigliero e ha sconfitto il governo di Batista. Non è il percorso cinese, un grande movimento contadino che ha distrutto l’altra società. Non è la rivoluzione sovietica, che con l’unione dei contadini, degli operai e dei militari ha sconfitto lo zarismo”, il Venezuela “assomiglia piuttosto al Cile prima del colpo di stato del 1973. Un cambiamento che purtroppo fu sconfitto proprio dai militari golpisti. Noi però abbiamo un vantaggio: la nostra forza armata non è figlia delle classi privilegiate, staccata completamente dalle aspirazioni del popolo”. Queste parole ci fanno capire che il processo rivoluzionario venezuelano differisce da quelli sin qui descritti sotto molti aspetti, il più importante dei quali è appunto che l’esercito venezuelano non solo non ha osteggiato la rivoluzione ma ne ha assunto la guida.
Simili invece le condizioni che hanno favorito la rottura sistemica, a partire dalle riforme che hanno liberalizzato i licenziamenti e ridotto le tutele pensionistiche, imposte da FMI e Banca Mondiale intorno alla metà dei Novanta, anche se già nel 1989 si era verificata un’insurrezione popolare, passata alla storia come il Caracazo, che venne soffocata nel sangue. In questo contesto le proteste contro le politiche neoliberiste ottengono l’appoggio dell’esercito, guidato del colonnello Chávez, già protagonista di un fallito golpe di sinistra. Intorno ai soldati nasce la rete dei circoli bolivariani, coagulando un ampio schieramento di forze (comunisti, ex guerriglieri, movimenti sociali e di resistenza contadina) che confluirà nel Movimento Quinta Repubblica e, più tardi (2005), nel Partito Socialista Unito del Venezuela, e che consentirà a Chávez di essere eletto presidente nel 1998, incarico che gli verrà più volte rinnovato fino alla morte. La figura e la personalità di Chávez sono state oggetto di feroci attacchi da parte della stampa occidentale. Questa campagna denigratoria – alimentata anche dalle sinistre – è servita a distogliere l’attenzione dalle realizzazioni del regime, a partire da una riforma costituzionale che, analogamente a quelle ecuadoriana e boliviana, ha rafforzato la rappresentanza diretta delle minoranze indigene, promosso la parità di genere, riconosciuto il diritto dei contadini alla terra e dato ampio spazio alle istituzioni di democrazia diretta e partecipativa[8].
Benché la rivoluzione venezuelana sia potuta apparire, nella prima fase, come una sorta di ricambio delle élite politiche che non investiva l’apparato statale e i rapporti sociali di produzione, Chávez, una volta consolidato il proprio potere, ha avuto il merito di impegnarsi nello sforzo di attuare i nuovi principi costituzionali, promuovendo inedite istituzioni democratiche come i consigli dei lavoratori (che si affiancano senza sostituirli ai sindacati), i consigli comunali, cresciuti su esperienze preesistenti di autorganizzazione sociale, e le Missioni, articolazioni dell’amministrazione pubblica parallele ai ministeri tradizionali concepite per affrontare vari problemi nei campi dei diritti allo studio, alla casa e alla salute. Il tutto dovendo fronteggiare i continui tentativi dell’imperialismo nordamericano di recuperare il controllo sul Paese, alimentando i moti di piazza – spesso violenti – organizzati dall’opposizione di destra e le feroci campagne denigratorie dei media nazionali e globali.
L’impegno ad avviare il Paese verso una transizione socialista è stato tuttavia frenato da una serie di gravi contraddizioni: il peso del capitale privato locale e delle multinazionali straniere rimane elevato; il modello estrattivista, con la conseguente dipendenza dall’unica risorsa strategica del petrolio, non è facilmente superabile ed espone l’economia venezuelana ai contraccolpi delle oscillazioni del prezzo del petrolio; il tentativo di potenziare la produzione agricola favorendo i piccoli proprietari e le imprese sociali è iniziato con ritardo e non ha potuto garantire la sovranità alimentare; le riforme istituzionali non sono riuscite a rimpiazzare una burocrazia corrotta e asservita agli interessi delle vecchie élite dominanti; infine, e questo è il punto più dolente, con la morte di Chávez è venuto a mancare un fattore assai importante per garantire la continuità di un processo rivoluzionario che appare oggi esposto agli effetti combinati della crisi economica e dell’assedio orchestrato dagli Stati Uniti e dai loro alleati: inflazione galoppante, crollo del prezzo del petrolio, difficoltà di approvvigionamento di beni fondamentali come alimentari e farmaci, pressioni speculative da parte del capitale nazionale e internazionale. Problemi che hanno messo con le spalle al muro il successore di Chávez Nicolas Maduro, fino a determinarne la sconfitta nelle elezioni del 2015. Dopo quella batosta, grazie all’appoggio di esercito e polizia , Maduro è riuscito, prima a contrastare la controrivoluzione guidata dalla maggioranza parlamentare di destra e appoggiata dagli Stati Uniti, poi a passare al contrattacco attraverso la convocazione di una nuova Assemblea Costituente.
Per quanto la situazione appaia oggi stabilizzata – anche grazie al fatto che la guerra russo-ucraina ha ridotto la pressione nordamericana sul Paese – permangono i rischi di guerra civile fomentata dall’esterno[9]. I protagonisti di efferate violenze antigovernative vengono sistematicamente presentati dai media occidentali come pacifici manifestanti in lotta per la democrazia. Avviando un tentativo di trasformazione socialista che rispettava il quadro delle libertà borghesi, Chávez aveva forzato i meccanismi dello stato borghese in nome di una democrazia partecipativa e protagonista, sempre legittimando le sue scelte tramite le urne. Ma la situazione ceratasi dopo la sua morte rilancia il dilemma comune a tutti i processi rivoluzionari sin qui esaminati: per mantenere il consenso della maggioranza si è costretti ad affrontare verifiche elettorali continue con i relativi rischi di annullamento dei risultati ottenuti in anni di lotte, quindi la domanda è: esiste un’alternativa al di fuori dei formalismi della democrazia borghese?
Riforme o rivoluzione?
A dirigere I processi rivoluzionari appena descritti non sono stati i tradizionali partiti di sinistra, ma leader carismatici che hanno fondato nuove formazioni politiche le quali hanno conquistato il potere per vie legali. La fase culminante del processo è coincisa con l’approvazione di testi costituzionali particolarmente avanzati. Queste carte sono state attuate in misura parziale, perché i regimi che le hanno prodotte si fondano su equilibri precari caratterizzati da forme di dualismo di potere, per cui l’economia privata continua a svolgere un ruolo determinante a fianco dell’economia pubblica e sociale, mentre le istituzioni di democrazia diretta e partecipativa sono costrette a convivere con le tradizionali forme di democrazia rappresentativa e con un apparato burocratico in cui permangono alti tassi di corruzione e forti interessi corporativi. Questi equilibri precari sono minacciati dai periodici riallineamenti dei ceti medi con le élite politiche tradizionali appoggiate dal capitale globale, per cui il rischio di una rivincita delle forze reazionarie è continuo e concreto.
In che misura la fragilità di questi esperimenti è dovuta al fatto che non sono nati da vere e proprie rivoluzioni ma da processi riformisti rispettosi delle regole liberal democratiche? Nel dibattito fra gli intellettuali marxisti del subcontinente, questo interrogativo è stato ricondotto alla classicissima opposizione tardo ottocentesca-primo novecentesca fra via riformista e via rivoluzionaria[10]. Una contrapposizione che, a quei tempi, si era cristallizzata nella rottura fra la Seconda e la Terza Internazionale. La “canonizzazione” dei due opposti paradigmi – socialcomunismo versus socialdemocrazie – ha dissipato la ricchezza del dibattito che si era svolto fra la fine del secolo XIX e la Prima Guerra mondiale, cui avevano partecipato mostri sacri come Engels, il quale non aveva escluso in via di principio l’eventualità che il proletariato potesse andare al potere per via elettorale e avviare la transizione al socialismo mediante una serie di riforme radicali, e Rosa Luxemburg che, qualche anno dopo, aveva precisato che l’alternativa non era fra riforme e rivoluzione bensì fra coloro che considerano le riforme come un mezzo per arrivare alla rivoluzione e quelli che, al contrario, assumono le riforme come un fine in sé stesso rinunciando all’obiettivo del superamento del capitalismo.Il dibattito attuale tende a polarizzarsi fra due posizioni: da un lato, c’è chi sottolinea l’impossibilità di mantenere indefinitamente gli equilibri del dualismo di potere senza riconsegnare la vittoria alle forze della reazione, dall’altro c’è chi non esclude la possibilità di una transizione pacifica al socialismo.
Gli argomenti dei primi possono essere così sintetizzati: 1) il ritorno dello Stato – che si concreta attraverso le nazionalizzazioni (limitate e parziali) e le politiche di ridistribuzione del reddito – non è di per sé sufficiente a connotare in senso socialista regimi come quelli appena descritti; 2) se si resta al governo troppo a lungo senza fare la rivoluzione, si finisce per cavare le castagne dal fuoco per conto del capitalismo, aiutandolo a superare la crisi; 3) la convivenza di democrazia rappresentativa e democrazia diretta regala alle vecchie classi dominanti non solo la speranza ma la concreta opportunità di riconquistare il potere. Gli ottimisti non negano l’esistenza di tali rischi, ma replicano che non si può sottovalutare il fatto che le forze rivoluzionarie non si sono limitate a vincere le elezioni, ma hanno avviato processi costituenti in grado di modificare profondamente le strutture istituzionali e di creare i presupposti – perlomeno sul piano dei principi – per cambiare i rapporti di produzione. A mio avviso l’intera questione andrebbe riconsiderata adottando il punto di vista dal quale Giovanni Arrighi ha osservato la rivoluzione cinese, vale a dire rifiutando l’associazione automatica fra capitalismo e mercato. La natura socialista dei regimi nati dalle rivoluzioni ecuadoriana, boliviana e venezuelana non è giudicabile in base a criteri come la persistenza di ampi settori economici in mano a proprietari privati, e nemmeno al fatto che si sia arrivati al potere per via pacifica. I veri nodi sono altri: il potere politico è in grado di esercitare un controllo effettivo sui processi economici e sociali? Ma soprattutto: il fine strategico dichiarato delle forze al potere è o no quello di costruire il socialismo? Alla seconda domanda , almeno nel caso di Bolivia e Venezuela, la risposta è sì. Più difficile rispondere alla prima proprio perché, almeno finora, non è stato possibile sottrarsi alla logica della democrazia rappresentativa, che pende come una spada di Damocle sulla possibilità di impostare strategie di lungo periodo per progettare la transizione al socialismo, in quanto basta una sconfitta elettorale per neutralizzare anni di lavoro. Ingabbiate in questa cornice di regole procedurali, le forze rivoluzionarie non hanno altra scelta se non impegnarsi strenuamente per mantenere il consenso delle masse, ma in situazioni di crisi economiche tale consenso rischia di venir meno sia da parte dei ceti medi sia da parte di alcuni settori popolari.
Passando al piano economico, vale la lezione fondamentale di un autore come Samir Amin, secondo cui i Paesi periferici in via di sviluppo possono autonomizzarsi e imboccare la via del socialismo solo praticando il delinking dal mercato globale dominato dai Paesi del centro. Finché restano agganciati al mercato globale, essi devono subire i diktat dei cinque monopoli (sulle tecnologie avanzate, sulle risorse finanziarie, sulle risorse naturali, sulla comunicazione e sui media, sui mezzi distruzione di massa). Fare delinking implica cancellare il debito estero e rendersi autosufficienti, conquistare la sovranità alimentare; tenersi strette le proprie materie prime e costruire industrie di trasformazione che lavorino per i mercati locali; ridurre il legame con il sistema capitalista mondiale praticando forme di cooperazione e sostegno internazionale a livello regionale. Significa, inoltre, porre limiti alla crescita dei ceti medi urbani, le cui aspettative di consumo tendono ad alimentarne l’ostilità nei confronti delle idee socialiste. La Cina ha potuto realizzare queste condizioni a conclusione di un percorso lungo e tortuoso, soprattutto grazie alle enormi dimensioni della sua popolazione, alla sua civiltà millenaria, a una vittoriosa guerra civile e alla ferrea direzione politica del PCC. Nessuno dei Paesi di cui stiamo parlando dispone di risorse paragonabili, anche se sono state avviate iniziative di collaborazione e interscambio a livello regionale, ma non va dimenticato che proprio la Cina è in grado di offrire loro un formidabile aiuto sul piano finanziario, industriale, tecnologico e scientifico e, nella prospettiva della frammentazione dell’economia globale in atto a causa della guerra fredda, che porterà alla formazione di grandi aree integrate in competizione le une con le altre, ciò potrebbe essere decisivo.
Sul pensiero di Alvaro G. Linera
Dopo José Carlos Mariátegui[11], Alvaro G. Linera è forse il più importante intellettuale rivoluzionario che il subcontinente abbia generato. Qui ne discuterò le idee a partire da tre saggi (La potencia plebeya, Clacso/Prometeo libros 2013; Forma valor y forma comunidad, traficantes de sueños, Quito 2015; Democrazia, Stato, Rivoluzione; Meltemi, Milano 2020) e da una serie di interviste ed articoli pubblicati dopo il golpe del 2019 e il ritorno al potere del MAS nell’anno successivo.
In Democrazia, Stato, Rivoluzione, Linera riprende il concetto di “accumulazione primitiva permanente” forgiato da David Harvey[12] e altri autori che hanno messo in luce come l’accumulazione primitiva non sia un fenomeno storico che si è compiuto nei secoli XVII, XVIII e XIX, ma un processo che il capitalismo rimette in moto ogni volta che deve compiere un salto di fase. In questi momenti cruciali, generalmente associati a crisi e distruzione su larga scala di risorse, il capitale riattiva il processo di accumulazione allargata estendendo il dominio del mercato su nuovi ambiti produttivi, sociali, geografici, naturali, culturali. Questa colonizzazione di nuovi mondi vitali assume di frequente forme violente che Harvey definisce “appropriazione per espropriazione”. La riflessione di Linera parte, oltre che da questi concetti, dal filone eretico quel marxismo latino americano che valorizza le riflessioni dell’ultimo Marx[13], allorché studiò con interesse le tesi dei populisti russi che vedevano nelle istituzioni e nella cultura delle comunità contadine del loro Paese l’opportunità di approdare al socialismo senza passare per le forche caudine del capitalismo. Linera attualizza questo punto di vista a partire dalla seguente considerazione: è vero che il tardo capitalismo è approdato alla sussunzione reale dell’intera conoscenza mondiale, ma è altrettanto vero che esso procede alla sussunzione formale di processi di lavoro comunitari non capitalisti o precapitalisti.
Questa duplice tendenza ha fatto sì che, accanto alla classe operaia tradizionale, sia emerso un proletariato mondiale di nuovo tipo diviso in due grandi campi: 1) lavoratori delle nuove professioni legate alla conoscenza e alla tecnologia nelle metropoli, i quali non si percepiscono come lavoratori ma come imprenditori di se stessi; 2) comunità precapitalistiche ma coinvolte nel processo di accumulazione capitalistico dei Paesi periferici e semiperiferici, le quali, pur non rispettando le caratteristiche “canoniche” che il marxismo dogmatico richiede affinché un soggetto sociale possa essere inquadrato nel proletariato, sono spinte dall’aggressione del capitale nei confronti del loro stile di vita, della loro cultura e delle loro condizioni di riproduzione e sopravvivenza, a sviluppare una relazione antagonistica nei confronti dell’attuale modo di produzione.
Linera definisce questi strati di classe “forma comunità” e sostiene la tesi secondo cui queste forze comunitarie, nella misura in cui sono costrette a lottare contro l’accumulazione primitiva permanente, acquisiscono una visione del mondo più ampio e universalizzante, per cui la versione andina del socialismo del secolo XXI emerso dalle rivoluzioni bolivariane si può considerare come una proiezione del buen vivir, cioè del modello socialista originario delle comunità indigene. Il ruolo egemonico dei movimenti indigeni nel processo rivoluzionario boliviano è stato anche il frutto delle specifiche condizioni storiche, culturali ed etniche di un Paese in cui le differenze di classe coincidono in larga misura con le differenze etniche, per cui la quasi totalità dei membri delle classi subalterne appartengono a etnie che rappresentano il 70% della popolazione. Le sinistre tradizionali avevano involontariamente contribuito a occultare questa realtà nella misura in cui consideravano prioritari gli obiettivi politici e sindacali della lotta di classe rispetto a quelli dell’emancipazione delle masse indigene. La presa di coscienza della propria doppia condizione di sfruttati e colonizzati da parte di queste ultime, ha innescato un processo di etnicizzazione dello scontro di classe e ha permesso agli organismi locali di autogestione di prendere il posto delle vecchie forme sindacali e partitiche e di esercitare un ruolo strategico di mobilitazione, organizzazione e lotta.
Uno dei dilemmi relativi alla possibilità di costruire il socialismo senza distruggere lo stato borghese, riguarda la possibilità o meno di modificarlo una volta andati al governo. Negli scritti più recenti, Linera ammette che cambiare dall’interno la macchina statale si è rivelato un compito più duro del previsto. Se le destre hanno potuto riprendere vigore non è stato solo grazie al controllo sui media, sull’università, sulle fondazioni, sulle case editrici e su una serie di reti sociali, ma anche perché si è dimostrato difficile, se non impossibile, “rieducare” le vecchie caste burocratiche: magistrati, gerarchie militari, personale docente, quadri amministrativi, ecc. E anche perché è fallita quella che Linera chiama “riforma morale”, cioè la lotta contro la corruzione. Infine perché i regimi postneoliberisti nati dal giro a l’izquierda hanno ritenuto che “governare per tutti” implicasse fare delle concessioni alle destre, il che è doppiamente sbagliato: in primo luogo perché ciò significa prendere decisioni che indeboliscono la tua base sociale, poi perché la destra lo interpreta come un segno di debolezza e un’occasione per tornare all’attacco.
Un’altra difficoltà associata alla scelta di rispettare le regole del formalismo borghese, riconosce Linera, consiste nel fatto che dare continuità al processo rivoluzionario in un contesto di democrazia rappresentativa è impresa ai limiti dell’impossibilità. I regimi socialisti andati al potere per vie legali devono affrontare una sfida difficilissima: come garantire il ricambio delle leadership? Come si è visto, in Ecuador, Bolivia e Venezuela sono state approvate nuove Costituzioni che affiancano alle tradizionali istituzioni rappresentative nuove forme di democrazia diretta e partecipativa, ma questo non risolve la questione, anzi la complica ulteriormente, nella misura in cui genera un dualismo istituzionale che tende a provocare conflitti antagonistici. Un esempio di tali difficoltà consiste nel fatto che, per garantire continuità al progetto rivoluzionario, i presidenti sono stati costretti a introdurre riforme che consentissero loro di ricandidarsi più volte. Linera osserva che l’alternativa consisterebbe nel costruire leadership collettive, ma questo richiede tempi lunghi che le scadenze imposte dalla democrazia rappresentativa non concedono. In breve: la rivoluzione è permanentemente esposta al rischio che una sconfitta elettorale offra alle destre l’opportunità di annullare in poche settimane anni di sforzi per cambiare l’economia, la società e la politica.
Altri due nodi teorici cruciali affrontati da Linera riguardano la questione del processo di transizione al socialismo e quella del ruolo dello Stato in tale processo. Partiamo dalla prima. I critici “di sinistra” accusano il governo boliviano di non avere instaurato un regime socialista bensì una variante di “capitalismo di stato” simile a quelle in vigore in Unione Sovietica, in Cina e a Cuba. Inoltre gli ambientalisti rimproverano al governo del MAS di avere tradito i valori e i principi delle comunità andine – il buen vivir – in nome di un’ideologia “industrialista” e “sviluppista”, mentre certi gruppi femministi lo accusano di avere idee “maschiliste” e conservatrici in materia di relazioni di genere. La replica di Linera è in totale sintonia tanto con quella che Lenin rivolse alla sinistra bolscevica che chiedeva l’attuazione immediata del socialismo, quanto con quelle che i dirigenti del PCC che hanno intrapreso la via delle riforme negli anni Settanta rivolgono alle politiche maoiste del Grande Balzo in avanti e della Rivoluzione Culturale. La costruzione del socialismo va concepita come un processo di transizione di lungo periodo. In un Paese in via di sviluppo come la Bolivia l’obiettivo immediato non poteva essere altro che la costruzione d’una sorta di capitalismo postneoliberale, fondato sull’alleanza fra piccola e media imprenditoria privata, attività produttive tradizionali e comunitarie e politiche pubbliche orientate al trasferimento di tecnologie e risorse a favore di quest’ultime. Il mercato e l’economia capitalistica non possono essere aboliti per decreto, e nemmeno nazionalizzazioni più estese e radicali di quelle attuate dal governo del MAS avrebbero potuto realizzare tale obiettivo; i compiti più urgenti erano restituire alla società il controllo politico sui processi di distribuzione del reddito e sui flussi commerciali e finanziari; assicurare alla grande maggioranza dei cittadini che fino ad allora ne erano stati esclusi l’accesso a sanità, educazione superiore, assistenza sociale[14]. Questi obiettivi sono stati in larga misura realizzati da un processo rivoluzionario che ha anche restituito alla Bolivia la dignità di nazione sovrana, emancipandola dal dominio imperiale nordamericano, così come ha riconosciuto la natura plurinazionale e plurilinguistica della Repubblica, facendo giustizia di secoli di oppressione coloniale della maggioranza indigena. Quanto alle critiche degli ambientalisti, Linera ammette che permangono tensioni fra la necessità di industrializzare il Paese e le pratiche del buen vivir; così come continuano ad esistere tensioni fra indigeni e non indigeni, fra città e campagna, fra lavoratori e imprenditori, fra stato e movimenti sociali. Per un lungo periodo, di durata imprevedibile, coesisteranno diverse forme di proprietà e di gestione della ricchezza – privata e statale, comunitaria e cooperativa – quindi esisteranno anche conflitti e contraddizioni “in seno al popolo”, per usare un noto concetto maoista.
Veniamo al ruolo dello Stato nel processo di transizione. Linera contesta l’ideologia “antistatalista” delle sinistre radicali: se non si prende il potere, argomenta, ci si autocondanna all’irrilevanza politica, perché la lotta per l’emancipazione delle classi subalterne passa necessariamente attraverso la lotta per il potere dello Stato. L’idea che il mondo si possa cambiare facendo secessione dal sistema politico, operando negli interstizi della vita quotidiana, “toglie alle classi subalterne i successi ottenuti nelle strutture istituzionali dello stato e rimuove la storia delle lotte che lo hanno attraversato”. Ma soprattutto non coglie la vera essenza dello stato, lo scambia per una “cosa”, per uno “strumento” mistificandone la reale natura di processo, di relazione sociale. In una conferenza dedicata al pensiero di Poulantzas Linera afferma che lo stato “è un processo, un agglomerato di rapporti sociali che si istituzionalizzano, si regolarizzano e si stabilizzano”; è “il processo di formazione di egemonie e blocchi di classe”. Il che significa che non è un Moloch da abbattere perché incorpora tutte le forme di oppressione, autoritarismo, ecc., bensì un campo di forze su cui è fondamentale che le classi subalterne si misurino con i propri avversari per assumerne il controllo”. Il fatto che lo stato boliviano sia passato, dopo la rivoluzione, a controllare il 35% del PIL (in precedenza ne controllava il 12%) non significa che ha instaurato il socialismo, significa però che ha acquisito margini di autonomia che gli consentono di controllare le ambizioni del blocco imprenditoriale: senza un minimo indispensabile di controllo sul PIL un governo progressista può essere ricattato dai poteri economici, e non può sfruttare una serie di meccanismi (tasse, politiche fiscali, investimenti) per avanzare ulteriormente sulla via del socialismo.
Linera affronta poi il tema del ruolo delle classi medie in quanto fattore di resistenza al cambiamento rivoluzionario da due punti di vista: socioeconomico e ideologico culturale. In primo luogo, ricorda che la forte ridistribuzione della ricchezza sociale che il governo boliviano ha realizzato con le sue politiche economiche ha permesso un forte ampliamento delle classi medi. Dopodiché ammette che l’aumento della capacità di consumo e della giustizia sociale non si è accompagnato alla politicizzazione della società, e constata che in questo modo si rischia di non vincere sul piano del senso comune, il che mette a rischio il consenso e quindi l’egemonia. Peraltro il problema non riguarda solo le vecchie classi medie, ma anche a quelle create ex novo dal regime rivoluzionario: “molti dei nostri fratelli, già dirigenti sindacali e studenteschi”, constata con una punta di amarezza, “considerano arrivare in parlamento un mezzo per l’ascesa sociale”. Per tacere degli scioperi corporativi indetti dagli insegnanti, una categoria che è stata fra i maggiori beneficiari degli aumenti salariali voluti dal governo.
La frammentazione corporativa è stata uno dei fattori che, oltre a indebolire il blocco sociale rivoluzionario, hanno favorito la formazione d’un blocco sociale resistente al cambiamento democratico. Il golpe di destra del 2019 non sarebbe stato possibile se la classe media tradizionale non ne avesse creato i presupposti “con il suo discorso razializzato, i suoi editoriali, le sue reti sociali il suo linguaggio”. Un refrain tipico di questa campagna è stata l’accusa al MAS di avere vinto ricorrendo alle frodi elettorali: gli indios, così ragionano questi soggetti intrisi di razzismo, non possono vincere, se vincono possono farlo solo con le frodi. Ma la piccola (numericamente) élite delle vecchie classi dominanti non è stata spalleggiata solo da questi ceti tradizionali: una grave responsabilità spetta a quei nuovi settori di classe media in cui affondano le radici gli oppositori “di sinistra”: una parte di costoro, spiega Linera, si è fatta sedurre dal neoliberalismo, dalle promesse illusorie della modernizzazione e della globalizzazione, dalle ideologie new age. Inoltre un certo femminismo[15], un certo multiculturalismo e un certo ecologismo sono molto cresciuti numericamente sotto il governo del MAS, e questo schieramento “liberal-progressista” si è mobilitato contro l’estrattivismo al fianco di una destra che usava strumentalmente il discorso ambientalista. Data la sua composizione etnica e di classe, non stupisce che abbia condiviso con le destre anche il rifiuto dell’uguaglianza: che gli indios restino operai, scaricatori, ambulanti, che non mandino i figli alle nostre stesse università, che non si prendano appartamenti accanto ai nostri. Ma neppure certe sinistre “radicali” che pure non hanno imboccato simili derive ideologiche sono esenti da responsabilità: poco sopra abbiamo riferito della netta presa di distanza di Linera nei confronti dell’ideologia antistatalista di questi gruppi: se non c’è consapevolezza della necessità di prendere il potere, e di difenderlo quando è sotto attacco da parte delle forze reazionarie, e se si nega a priori che la politica possa cambiare le relazioni di dominio, l’orizzonte delle lotte si restringe fino a ridurle a “una dispersione caotica e frammentaria di sforzi disconnessi”.
Per riassumere
Ritengo che vada condotta una battaglia ideologica contro quei “puristi” che sostengono che oggi nel mondo non esiste alcun Paese socialista, ma solo differenti forme di capitalismo in competizione reciproca. La verità è che nel mondo i socialismi esistono, anche se “imperfetti”. Non perché non corrispondono al modello ideale elaborato da Marx ed Engels e rimasto immutato in tutta la storia novecentesca. A renderli imperfetti non è nemmeno il fatto che si tratta di formazioni sociali in cui sussistono il mercato e la proprietà privata, bensì il fatto che, pur avendo incredibilmente migliorato le condizioni della stragrande maggioranza delle persone che in esse vivono e lavorano, convivono con una serie di contraddizioni che ne rendono imprevedibile l’ulteriore evoluzione. Si tratta cioè di società in transizione che potranno approdare a esiti differenti in base all’evoluzione delle contraddizioni di cui sopra, e ancor più in base ai rapporti di forza che riusciranno a instaurare con i Paesi capitalisti del blocco occidentale.
Il che ci porta alla guerra che Stati Uniti ed Europa hanno scatenato non solo contro questi Paesi ma anche contro tutti quelli che, pur non essendo socialisti, tentano di sottrarsi al loro dominio. Molti marxisti occidentali vedono, in questa alleanza “spuria” fra Paesi in via di sviluppo con regimi fra loro ideologicamente assai diversi, l’ulteriore conferma del fatto che Cina, Bolivia, Venezuela, Cuba, ecc. non sono Paesi “veramente” socialisti. Soprattutto non digeriscono il fatto che queste nazioni mantengono un ferreo controllo politico sulle dinamiche sociali ed economiche. Ciò viene condannato come totalitarismo e mancanza di democrazia (laddove si intende che l’unica “vera” forma di democrazia è, per definizione, la democrazia rappresentativa). Accuse che non vengono rivolte solo alla Cina, dove vige un regime di partito unico, ma anche a Bolivia e Venezuela, benché in questi Paesi le forze rivoluzionarie siano andate al potere per vie legali e governino rispettando le procedure della democrazia formale.
Ritorno infine sul tema delle differenze fra Cina e paesi latinoamericani: il PCC ha costruito letteralmente ex novo lo Stato cinese, già demolito dalla colonizzazione occidentale e poi definitivamente dissolto da decenni di guerra civile e di lotta contro l’invasione giapponese, il che vuol dire che dispone di un poderoso strumento progettato “su misura” per le esigenze del processo rivoluzionario. Tutti i processi rivoluzionari latinoamericani hanno invece ereditato stati plasmati da secoli di dominio borghese, con caste burocratiche, giuridiche, militari e accademiche abituate a servire gli interessi delle élite dominanti e in larga misura provenienti da quelle stesse élite. Ciò ha creato gravissimi problemi nell’implementazione dei progetti di trasformazione sociale dei governi postneoliberisti. Problemi altrettanto gravi ha creato la necessità di far convivere le nuove istituzioni di democrazia diretta e partecipativa con la democrazia rappresentativa. Una seconda differenza strategica si riferisce al ruolo delle classi medie. Anche in questo caso la Cina è in vantaggio: un partito e uno stato espressione di una rivoluzione eminentemente contadina hanno in qualche modo potuto “dosare” la crescita delle classi medie, educandole ad accettare e condividere i valori del progetto socialista (benché non senza attriti: vedi piazza Tienanmen). In America Latina sussistevano, e sussistono, ampi settori di classi medie tradizionali profondamente reazionarie, mentre è mancato il tempo di educare le nuove classi medie, cresciute in fretta e disorientate dalla crisi globale.
Paradossalmente, sono questi fattori di maggior debolezza delle esperienze rivoluzionarie latinoamericane a rendercele più “vicine” di quella cinese. Sia perché in Europa è difficile immaginare situazioni rivoluzionarie che contemplino la possibilità di costruire ex novo lo stato, per cui anche qui si porrebbero problemi analoghi, se non più gravi, a quelli incontrati da Bolivia e Venezuela. Sia perché i nostri legami culturali con l’America Latina sono più stretti di quelli con la Cina. Tutto ciò comporta la difficoltà, non dico di progettare/praticare ma anche solo di immaginare, percorsi rivoluzionari che non restino impastoiati in logiche di tipo elettoralistico. Riguardo alla divaricazione fra marxismo orientale e marxismo occidentale, il marxismo latinoamericano che si colloca in una posizione intermedia, più vicina a quella cinese sul piano dell’agire concreto, più vicina a quella europea sul piano del progetto utopistico.
Tirando le somme: sbarazzato il campo dalle ubbie puriste e preso atto dei meriti (e dei limiti) dei socialismi imperfetti; posto poi che la guerra che Stati Uniti ed Europa hanno scatenato contro i socialismi imperfetti e i loro alleati disegna due campi contrapposti rispetto dai quali i marxisti rivoluzionari non possono dirsi equidistanti, resta l’arduo compito di discutere a quali condizioni possa essere fatto rinascere un marxismo occidentale che torni a porsi l’obiettivo della presa del potere e della costruzione del socialismo.
Riferimenti
AAVV, America Latina hoy. Reforma o Révolucion, Ocean Sur, 2009.
A. Acosta, El buen vivir in Ecuador,
G. Colotti, Talpe a Caracas. Cose viste in Venezuela. Jaca Book, Milano 2012.
G. Colotti, Dopo Chavez, Jaka Book, Milano 2018.
E. Dussel, L’ultimo Marx, manifestolibri, Roma 2009.
C. Formenti, Magia bianca magia nera, Jaka Book, Milano 2013
C.Formenti, Il socialismo è morto viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019.
C. Formenti, Guerra e rivoluzione (2 voll.); Meltemi, Milano 2023.n
D. Harvey, L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza, Feltrinelli, Milano 2018.
A. G. Linera, La potencia plebeya, Clacso/Prometeo Libros, Buenos Aires 2013.
A. G. Linera, Forma valor y forma comunidad, Traficantes de Suenos. Quito 2015-
A. G. Linera, Democrazia, stato, rivoluzione, Meltemi, Milano 2020.
J. VC. Mariategui, Sette saggi sulla realtà peruviana, e altri scritti politici, Giulio Einaudi Editore, 1972.
[1] Esemplare, in tal senso, il caso della guerra dell’acqua scoppiata in Bolivia nel 2000, a causa della privatizzazione di una risorsa che le comunità agricole e indigene erano abituate a considerare e trattare come un bene comune (Cfr. G. Tarquini (a cura di), La guerra dell’acqua e del petrolio, EdiLet, Roma 2011).
[2] Questo termine è giustamente contestato dalle culture autoctone per il suo smaccato significato eurocentrico: la data del 1492, che per i bianchi è una festa, per gli indigeni è motivo di lutto, perché segna l’inizio del genocidio che ha spazzato via millenarie civiltà locali.
[3] Cfr. A. Acosta El buen vivir en Ecuador: marketing politico o proyecto en disputa.
[4] Cfr. C. Formenti, Magia bianca magia nera, Jaka Book, Milano 2014.
[5] Cfr. Á. G. Linera, La potencia Plebeya, op. cit.; vedi anche, dello stesso autore, Forma valor y forma comunidad, op. cit.
[6] I critici lo definiscono un regime corporativista, Linera lo descrive invece come il tentativo di offrire rappresentanza a una “moltitudine” in cui nessuno si esprime a titolo individuale, ma in nome di identità collettive locali alle quali deve rendere conto (Cfr. Potencia plebeya, op. cit. Nella Introduzione a tale lavoro, Pablo Stefanoni sottolinea la differenza fra questa visione della moltitudine come arcipelago di soggetti organizzati e quella di Antonio Negri, che appare piuttosto come un insieme di singolarità).
[7]Cfr. G. Colotti, Talpe a Caracas. Cose viste in Venezuela. Jaca Book, Milano 2012. Sulla rivoluzione bolivariana vedi anche, della stessa autrice, Dopo Chavez, Jaka Book, Milano 2018;
[8] Una successiva riforma, che avrebbe dovuto costituzionalizzare l’obiettivo della costruzione del socialismo del XXI secolo, è stata viceversa bocciata dal referendum popolare indetto per approvarla.
[9]G. Colotti (opp. citt.) mette in luce come parte delle vecchie sinistre che non si sono integrate nel PSUV siano spesso schierate con l’opposizione di destra, o perché condividono le accuse di totalitarismo rivolte al governo, o perché ne criticano le politiche estrattiviste. Vedi, a proposito di quest’ultimo punto, come si sono comportate in merito alla questione dell’Arco Minerario dell’Orinoco: questa regione ricchissima di materie prime ad alto valore (coltan, oro e altro) era sfruttata da miniere illegali gestite da bande mafiose ma, quando il governo ha deciso di assumerne la gestione per differenziare gli introiti e ridurre la dipendenza dal petrolio, sono scattate . le accuse di devastazione ambientale e aggressione alle comunità originarie che hanno visto accomunate destre e sinistre radicali, tanto in Venezuela che in Occidente.
[10] Cfr. AAVV, America Latina hoy. Reforma o Révolucion, Ocean Sur, 2009.
[11]Cfr. J. VC. Mariátegui, Sette saggi sulla realtà peruviana, e altri scritti politici, Giulio Einaudi Editore, 1972.
[12] Cfr. D. Harvey, L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza; Feltrinelli, Milano 2018.
[13] Vedi, fra gli altri, E. Dussel, L’ultimo Marx, manifestolibri, Roma 2009, e P. Poggio, L’Obščina. Comune contadina e rivoluzione in Russia, Jaka Book, Milano 1976.
[14] Anche Luis Arce, ministro dell’economia durante la presidenza Morales, e oggi subentratogli alla presidenza dopo la rivincita del MAS alle elezioni del 2020, già nel 2012 ribadiva che non si era mai pensato a una transizione immediata al socialismo, bensì a risolvere i problemi sociali più urgenti e a consolidare la base economica con una adeguata ridistribuzione degli eccedenti. A elaborare il modello su cui si è fondata la politica economica del regime era stato lo stesso Arce nel 1999, assieme a un gruppo di ex militanti del Partito Socialista Uno (PS-1). In poco più di un decennio, periodo nel quale lo stato ha agito da primo fattore di crescita e sviluppo, il PIL è aumentato da 9000 a 40.000 milioni di dollari, il PIL pro capite è triplicato, la povertà estrema è calata dal 38% al 15% e i salari reali sono fortemente cresciuti.
[15] In Bolivia (ma anche in altri Paesi latinoamericani) esiste un’ala del movimento femminista fatta soprattutto di donne bianche appartenenti agli strati sociali medio alti che le femministe rivoluzionarie chiamano ironicamente femminismo señorial, alludendo alla sua composizione di classe. Questa componente, che già si era distinta per essersi opposta a una legge che regolamentava salario e condizioni di lavoro delle collaboratrici domestiche indie, ha toccato il fondo dell’abiezione in occasione del golpe di destra, allorché affermò di non volersi schierare né con il MAS né con i generali perché erano entrambi esponenti di una cultura “machista”.