Il fine ultimo del comunismo

di Alessandro Testa, direttore del sito del Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”

Quasi sempre quando si inizia a discutere di comunismo, non solo con chi è estraneo alla riflessione in materia ma spesso anche con chi già si ritiene ben informato sulla questione, sorgono immediatamente alcuni equivoci su quale sia il vero fine di questa ideologia politica.

“Mettere tutto in comune!” esclama chi, operando una semplicistica traslazione semantica, deriva dall’etichetta il giudizio sul contenuto; “l’eguaglianza di tutti”, “l’abolizione della proprietà privata”, oppure “il potere agli operai”, sentenzia chi, sulla scorta di affrettate letture, rischia di scambiare i mezzi per i fini.

Scambiare i mezzi per i fini, questo è il vero problema.

Nessuno mette in discussione che la prassi politica marxista preveda l’abolizione della proprietà privata – quella dei mezzi di produzione di massa, beninteso – o la “dittatura del proletariato” come mezzi per giungere ad una società senza classi.

Ma neppure la società senza classi è il vero fine del comunismo. È anch’essa un mezzo, un mezzo strategico se vogliamo, ma sempre un mezzo resta. Non un fine.

Ed allora qual è il vero fine del comunismo? Leggiamo direttamente dalla penna di Marx:

“Al posto della vecchia società borghese con le sue classi e i suoi antagonismi sorgerà un’associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno sarà la condizione per il libero sviluppo di tutti [sottolineatura nostra]”.

(Marx-Engels, MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA – 1848)

La liberazione dell’essere umano come individuo sociale, alienato dal modo di produzione capitalista: ecco il vero fine che Marx si prefigge in tutta la sua ponderosa opera; la liberazione dell’essere umano come possibilità di realizzarsi pienamente, sciolto dalle catene e dai vincoli di una società che tutto incentra sul feticcio del capitale, del denaro, e sulla sua incessante accumulazione.

Quanto meno mangi, bevi, compri libri, vai a teatro, al ballo e all’osteria, quanto meno pensi, ami, fai teorie, canti, dipingi, verseggi, ecc., tanto più risparmi, tanto più grande diventa il tuo tesoro, il tuo capitale.

(Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844)

E qui sorge il primo interrogativo che vogliamo approfondire, senza la pretesa di offrire risposte esaustive ma solamente tracce, sentieri di riflessione ed approfondimento per il lavoro personale e collettivo di maturazione nella nostra crescita teorica e politica: per “liberare l’essere umano” bisogna partire dall’individuo o dalla collettività?

Praticamente tutto il pensiero filosofico e religioso sviluppato dall’antichità ad oggi finisce ad un certo punto per porsi il problema della liberazione dell’essere umano, offrendone quasi unanimemente una soluzione di stampo individualistico, talvolta francamente banale, talvolta affascinante e profonda come, per esempio, nel caso del pensiero di Siddhārtha Gautama, il Buddha storico; ma è evidente, non fosse altro che ad una sommaria analisi pratica, come questi approcci abbiano sostanzialmente fallito nel loro intento, non avendo di fatto realizzato il loro obiettivo che è quello di liberare l’uomo dalla sofferenza e dall’alienazione, rendendolo capace di realizzarsi pienamente per quanto la sua natura umana glie lo consenta.

Certamente non possiamo negare che alcune persone, attraverso la pratica di specifiche filosofie o metodi di crescita personale, abbiano raggiunto un livello di realizzazione personale e di libertà anche elevato, ma ciò non sposta di un millimetro la questione: l’essere umano in generale, l’umanità vorremmo quasi dire, non ha trovato dopo secoli di innumerevoli tentativi e innumerevoli proposte, una soluzione al problema della liberazione dell’individuo in senso generale.

Il marxismo, ponendo alla sua base non un approccio idealistico ma l’osservazione spassionata e concreta delle contraddizioni che sorgono in seno alla quotidianità della vita umana, si muove invece su un piano diverso.

Innanzitutto, Marx individua nei bisogni primari dell’essere umano – mangiare, vestirsi, produrre ciò che è necessario, in buona sostanza sopravvivere – il punto di partenza da cui sviluppare tutta la sua analisi sulla liberazione dell’essere umano.

“Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita…non è la coscienza degli uomini a determinare il loro essere ma è, al contrario, il loro essere sociale a determinare la loro coscienza”

(Karl Marx Per la critica dell’economia politica).

Da qui bisogna partire, dal dato di fatto incontestabile che non può esistere liberazione dell’essere umano senza liberazione dal bisogno, dalla schiavitù di un modo di produzione che si basa radicalmente sullo sfruttamento dei pochi a danno delle moltitudini.

“Naturalmente non ci daremo la pena d’illuminare i nostri sapienti filosofi sul fatto che la “liberazione” dell’“uomo” non è ancora avanzata di un passo quando essi abbiano risolto la filosofia, la teologia, la sostanza e tutta l’immondizia nell’“autocoscienza”, quando abbiano liberato l’“uomo” dal dominio di queste frasi, dalle quali non è mai stato asservito; che non è possibile attuare una liberazione reale se non nel mondo reale e con mezzi reali, che la schiavitù non si può abolire senza la macchina a vapore e la Mule-Jenny, né la servitù della gleba senza un’agricoltura migliorata, che in generale non si possono liberare gli uomini finché essi non sono in grado di procurarsi cibo e bevanda, abitazione e vestiario in qualità e quantità completa. La “liberazione” è un atto storico, non un atto ideale, ed è attuata da condizioni storiche, dallo stato dell’industria, del commercio, dell’agricoltura, delle relazioni.

[…] e in realtà per il materialista pratico, cioè per il comunista, si tratta di rivoluzionare il mondo esistente, di metter mano allo stato di cose incontrato e di trasformarlo”.

Ecco il primo punto chiave: è il modo di produzione che rende schiavi, quando si basa su rapporti di sfruttamento ed alienazione. Vale forse la pena di approfondire qui il concetto di “alienazione”: accanto al significato puramente etimologico e pratico, ovvero di sottrazione ed espropriazione di valore, potremmo anche considerare l’accezione più profonda di sottrazione all’essere umano di sé stesso, del suo essere uomo, con le sue aspirazioni, i suoi bisogni più profondi, il suo incoercibile desiderio di realizzazione e felicità.

Quello che è certo è che nessuna liberazione può essere neppure immaginata, né in senso immediato sia nel senso più profondo prima delineato, se prima all’essere umano non viene offerta la possibilità di riscattarsi da una società che gli impone la vendita del suo lavoro contro un salario che gli consenta di sopravvivere, espropriandolo non solo del pieno valore delle merci che il suo lavoro produce, ma anche, e forse più gravemente, della soddisfazione che il lavoro dovrebbe apportargli.

Ma come può l’individuo, piccola formica, mero ingranaggio di un sistema gigantesco ed impersonale, lottare per la sua liberazione? Come ciò può avverarsi, se ben sappiamo che la sua coscienza, il suo spirito vorremmo dire, non preesiste alle condizioni concrete storiche, politiche ed economiche in cui egli si trova immerso, ma è di converso il suo essere proprio individuo sociale, frutto del suo essere soggetto ed oggetto di specifici rapporti di produzione, a formare la sua coscienza? 

Qui sta la vera genialità del pensiero di Marx: invece di proporre velleitari ed astratti percorsi di liberazione individuale, egli pone l’accento sul fatto che in primis l’individuo si libera solo se si libera come classe, ed in secundis che questa liberazione non è il tendere ad un obiettivo astratto, diremmo quasi escatologico, ma il lavorare insieme agli altri in una prassi quotidiana che produce, con il suo stesso svolgersi, il cambiamento.

Quando il comunismo mette l’accento sulla lotta di classe, sulla necessità dello sviluppo di una coscienza di classe tra i lavoratori, lo fa certamente perché ciò è strumentale al rovesciamento del modo di produzione capitalistico, con il suo portato di oppressione, miseria e diseguaglianza, ma soprattutto perché nella prassi di scoprirsi parte di un organismo sociale con specifici interessi condivisi, e quindi di lottare insieme ad altri per cambiare concretamente le cose, l’individuo inizia davvero un processo di liberazione anche personale, intimo, radicale.

Quindi se da una parte la lotta di classe mira, attraverso all’ instaurazione della dittatura del proletariato – e qui ci sarebbe da discutere lungamente su come “dittatura” in questo contesto non si opponga a “democrazia”, ma disveli profondamente il fatto che la democrazia borghese si risolve sempre in dittatura sostanziale per la classe dei lavoratori, e come la dittatura del proletariato sia da intendersi come dittatura sulla borghesia, e quindi come democrazia sostanziale per il proletariato – ad un processo che attraverso il capovolgimento del paradigma di oppressione non miri solo a sostituire una classe dominante con un’altra, ma a far scomparire del tutto il concetto di classe, non più necessario in un mondo ove la produzione dei beni necessari alla vita non sia più basata sullo sfruttamento, dall’altra tutto questo lungo processo sarebbe incompleto ed in buona sostanza inutile se alla fine non producesse quello che è veramente importante, ovvero la liberazione dell’essere umano dalle pastoie dell’alienazione e della disumanizzazione.

Quello che Marx sogna non è un mondo utopico ove tutti vivano “felici e contenti” in una specie di paradiso terrestre, ma una società ove l’individuo possa esser uomo in tutte le sfaccettature della sua esistenza, tanto nell’esercizio delle sue funzioni più animali quanto in quello delle funzioni sociali, quelle che più lo qualificano proprio non come mero animale ma come essere umano.

Scrive Marx:

“Il lavoro esterno, il lavoro in cui l’uomo si espropria, è un lavoro-sacrificio, un lavoro-mortificazione. Finalmente l’esteriorità del lavoro al lavoratore si palesa in questo: che il lavoro non è cosa sua ma di un altro; che non gli appartiene, e che in esso egli non appartiene a sé, bensì ad un altro… Il risultato è che l’uomo (il lavoratore) si sente libero ormai soltanto nelle sue funzioni bestiali, nel mangiare, nel bere e nel generare, tutt’al più nell’avere una casa, nella sua cura corporale ecc., e che nelle funzioni umane si sente solo più una bestia. Il bestiale diventa l’umano e l’umano il bestiale”.

(K. Marx, Manoscritti economico-filosofici)

Leggere il marxismo anche in questa dimensione non è solo puro divertissement accademico, faccenda da intellettuali organici che nel tepore dei loro studioli colmi di libri e tranquillità si lambiccano con riflessioni astruse, magari in cerca di quella “novità” che consenta loro una briciola di fama e notorietà, almeno nel milieu marxista; no, fare proprio questo concetto è cosa gravida di conseguenze importantissime per la prassi quotidiana, per la costruzione di un partito comunista che sappia suscitare nelle masse di oppressi e sfruttati quella scintilla di interesse e volontà che li spinga ad impegnarsi e lottare insieme ai loro fratelli lavoratori, sublimando la loro sofferenza individuale nella consapevolezza che solo insieme si possono cambiare le cose.

Avere sempre in mente che ogni lotta, ogni strategia, ogni discussione, ogni atto compiuto in qualità di comunisti, tende sostanzialmente a quest’obiettivo ultimo, ovvero la liberazione dell’essere umano in quanto individuo sociale è uno strumento potentissimo, in grado di dare nuova linfa al nostro agire e di evitarci errori marchiani e deviazioni gravide di tragiche conseguenze; tenendo a mente questo fine ultimo diviene più semplice contemperare gli elementi dialettici in contraddizione fra loro che spesso ci creano problemi apparentemente insolubili, quali ad esempio la relazione tra diritti sociali e diritti civili, raggiungendo quella sintesi concreta, scevra di scorie idealistiche, che è il vero frutto di un pensiero autenticamente marxista.