di Carlo Formenti
Leggendo il libro dell’australiano Carl Rhodes, esperto di teorie dell’organizzazione e docente dell’Università di Sidney (Capitalismo woke. Come la moralità aziendale minaccia la democrazia, Fazi editore).
Leggendo il libro dell’australiano Carl Rhodes, esperto di teorie dell’organizzazione e docente dell’Università di Sidney (Capitalismo woke. Come la moralità aziendale minaccia la democrazia, Fazi editore) è difficile non rendersi conto di un paradosso: scritto con l’intenzione di denunciare i veri obiettivi politici che si nascondono dietro la svolta “progressista” di alcune grandi imprese multinazionali, finisce invece per svelare (sia pure involontariamente) le ragioni per cui la sinistra “politicamente corretta”, con la quale Rhodes si identifica, ha poche chance di contrastare gli obiettivi in questione.
Partiamo dal senso del termine woke, ormai di uso comune nel mondo anglofono ma che non tarderà a diffondersi in un’Europa sempre più “americanizzata”. Coniato dagli afroamericani nel contesto dei movimenti per i diritti civili degli anni Sessanta, e rilanciato nel corso delle mobilitazioni del movimento Black Lives Matter, nato per protestare contro gli assassinii a sangue freddo di cittadini neri ad opera di poliziotti bianchi (sistematicamente impuniti), è stato adottato anche dalle altre componenti della nuova sinistra Usa con il significato di essere attento, sensibile e ben informato rispetto a ogni genere di discriminazione e ingiustizia razziale o sociale (in particolare Rhodes elenca temi come sessismo, razzismo, ambientalismo, diritti LGBTQI+ e disuguaglianza economica, quest’ultima lasciata non a caso per ultima, ma su ciò tornerò più avanti). Ad adottare questa postura etica, tuttavia, non sono solo i militanti che inalberano le bandiere del politically correct, bensì un numero crescente di grandi marchi multinazionali, i quali non si limitano a sponsorizzare il mondo woke promuovendone obiettivi e slogan attraverso campagne di opinione e/o integrandoli sistematicamente nel linguaggio delle proprie strategie di marketing e pubblicitarie, ma lo sostengono attivamente, sia attraverso consistenti donazioni, sia promuovendo gli ideali woke fra i propri dipendenti (al punto di licenziare chi non vi si adegua). L’interrogativo cui Rhodes cerca di dare risposta nel proprio lavoro è se questa “conversione” non nasconda secondi fini.
L’autore prende le mosse dallo scontro ideologico che la presunta svolta a “sinistra” di manager di colossi come la finanziaria Black Rock, di multimiliardari come Bill Gates e Jeff Bezos, di aziende simbolo della New Economy quali Amazon, Google, Apple, Facebook ecc., per tacere di molti esponenti dello star system hollywoodiano e di grandi campioni sportivi, ha innescato fra progressisti liberal ed esponenti delle destre più reazionarie e retrograde, sia in ambito politico che in ambito giornalistico e religioso. I conservatori accusano i settori capitalistici convertitisi alla retorica del politicamente corretto di essersi accodati agli slogan dei movimenti femministi, LGBTQI+, ambientalisti, pacifisti, antirazzisti ecc. al solo scopo di “ripulire” (greenwashing) la propria immagine, ma soprattutto li accusano di avere così rinnegato il proprio ruolo fondamentale, che consiste nel generare profitti per gli azionisti; li accusano infine di ipocrisia, cioè di simulare idee e sentimenti che non provano realmente, contribuendo in questo modo al dilagare di un moralismo di massa che danneggia i principi e i valori tradizionali del popolo americano.
Curiosamente, quest’ultima accusa che arriva da destra converge con la critica più diffusa da parte delle sinistre. Tipica, in tal senso, la posizione assunta da un’esponente della sinistra democratica come la senatrice Elisabeth Warren, la quale invita le aziende ad essere woke non solo a parole ma anche nei fatti. Non si può essere veramente woke, argomenta la Warren assieme ad altri esponenti della sua parte politica, se l’impegno di manager e imprese si riduce a chiacchiere e a donazioni che, per quanto cospicue, sono poco più che briciole rispetto ai mostruosi profitti realizzati dai soggetti in questione. In particolare, certi slogan sulla giustizia sociale stridono con i mostruosi livelli di disuguaglianza che queste imprese hanno contribuito in prima persona ad alimentare negli ultimi decenni, né sono associate ad azioni concrete per ridurli. In poche parole: il “buonismo” ipocrita delle imprese non apporta cambiamenti reali in seno ai programmi del capitalismo.
Pur condividendo tale osservazione, Rhodes non la considera il nodo centrale delle questioni sollevate dall’ascesa di questo inedito”capitalismo di sinistra”. In primo luogo, sgombra il campo dalle ubbie di coloro che vedono nel fenomeno il rischio di un crollo dei profitti e un grave danno per gli interessi degli azionisti, che manager “plagiati” dalla sinistra sarebbero disposti a sacrificare sull’altare della propaganda liberal progressista. La verità è, argomenta citando una serie di dati in merito, che questa svolta non solo non ha danneggiato gli interessi aziendali ma ha anzi contribuito ad aumentare significativamente i profitti. Insomma: sposare l’ideologia woke sembra un ottimo affare. Ma i veri obiettivi della svolta, argomenta, sono altri e decisamente preoccupanti, nella misura in cui, sostiene, mettono a rischio la sopravvivenza stessa del sistema democratico. Il fatto che le imprese divengano woke, scrive, non potrebbe essere un mezzo per estendere il potere e l’egemonia del capitalismo? Non si tratta di “capitalizzare” la moralità pubblica, in modo che il dibattito civico e il dissenso democratico vengano sostituiti da campagne di marketing e pubbliche relazioni?
Per rispondere, Rhodes affronta la questione dal punto di vista storico. In primo luogo, ricorda che il fenomeno attuale presenta evidenti analogie con quello della filantropia dei robber barons, i rapaci monopolisti che dominarono l’economia americana negli ultimi decenni dell’Ottocento e nei primi del Novecento. Superata la Grande Crisi del 29 e la parentesi bellica, personaggi come Carnegie e Rockefeller, per citare i più noti, si trovarono negli anni Cinquanta a fronteggiare la sfida dell’alternativa socialista incarnata dall’Unione Sovietica e reagirono investendo una consistente fetta dei loro immensi profitti (Carnegie dispose che, alla sua morte, il 90% del patrimonio che aveva accumulato dovesse essere impiegato in iniziative benefiche di vario tipo). Il loro impegno filantropico era parte di una strategia lucidamente finalizzata a contrastare le possibili tentazioni socialiste da parte dei lavoratori americani. Né si trattava semplicemente di tener buono il popolo con il vecchio trucco di elargirgli panem et circenses: l’obiettivo era assumere il controllo delle politiche pubbliche onde sostituire progressivamente il sistema democratico con una plutocrazia benevola. Ebbene, scrive Rhodes, l’attuale capitalismo woke ripropone la stessa logica, con l’unica differenza che, oggi, a impegnarsi socialmente non sono più (o almeno non sono solo) i singoli magnati ma le aziende stesse. Come si spiega questo ricorso storico?
iIl fatto è che, nel corso del “trentennio dorato” del secondo dopoguerra, un potere politico ispirato ai principi ridistributivi keynesiani aveva favorito un compromesso fra capitale e lavoro che garantiva alti livelli di occupazione, salari decenti e servizi pubblici accessibili ed efficienti nel contesto di un ampio sistema di welfare, contribuendo a neutralizzare i progetti di instaurazione d’un regime plutocratico. La controrivoluzione liberista avviata negli anni Ottanta dai governi Tatcher e Reagan, e successivamente diffusasi in tutto il mondo occidentale, ha sistematicamente smantellato questo dispositivo. Liberalizzazione selvaggia, delocalizzazioni e globalizzazione finanziaria hanno invertito il corso della storia, generando livelli di disuguaglianza ancora più estremi di quelli dell’era dei robber barons, legittimati da narrazioni in merito alle chance di mobilità sociale che il libero mercato offrirebbe a tutti i soggetti dotati di spirito imprenditoriale, e dal mito del “trickle down” (cioè dalla tesi secondo cui una parte dei superprofitti accumulati dalle megaimprese “sgocciolerebbe” fino alla base della piramide sociale, garantendo benessere a tutti).
Queste narrazioni neoliberiste sono naufragate sugli scogli delle crisi del 2000-2001 e 2007-2008 scatenando la rabbia di lavoratori, consumatori ed elettori e aprendo la strada ai movimenti populisti (da notare che Rhodes sembra associare automaticamente al fenomeno populista le forze politiche di destra, ma anche su questo tornerò più avanti). È per fronteggiare la rabbia popolare che nasce il capitalismo woke (“una polizza assicurativa contro lavoratori, consumatori ed elettori esasperati” scrive Rhodes). Appropriandosi dei temi e degli slogan delle sinistre, le grandi imprese tentano di costruirsi delle credenziali etiche per distogliere l’attenzione dalle proprie rapine a danno dei beni pubblici, cui non hanno alcuna intenzione di rinunciare (non a caso, fra le cause che perorano, non viene quasi mai menzionata la lotta alle disuguaglianze di reddito e all’evasione fiscale). Il populismo aziendale è l’altra faccia del populismo di destra: se il secondo difende le ragioni del capitalismo selvaggio, il “progressismo” del primo è ancora più insidioso in quanto rivendica la propria capacità di risolvere problemi che i governi non possono né vogliono più risolvere. L’idea è che, più le imprese si dimostrano in grado di gestire le proprie “responsabilità sociali” meno ci sarà bisogno di intromissioni politiche in campo economico. Le grandi imprese, sostiene Rhodes, costituiscono una nuova élite il cui potere sulla società ambisce a rimpiazzare quello del governo democratico. Se questo obiettivo si realizzasse, si avvererebbe il sogno dei robber barons: il potere politico non sarebbe più la posta dello scontro pubblico fra opinioni contrastanti, bensì del dibattito fra le voci di coloro che detengono il potere economico, l’equilibrio del potere verrebbe quindi irreversibilmente spostato dalla sfera della democrazia alla sfera dell’economia. A questo punto cercherò di spiegare perché ritengo che gli argomenti di Rhodes e della cultura politica della sinistra politicamente corretta di cui questo autore è espressione non hanno alcuna chance di contrastare i fenomeni che il suo libro analizza e denuncia.
Parto da una constatazione: il regime plutocratico che Rhodes presenta come un rischio da scongiurare è già da tempo un dato di fatto. Basti considerare che una buona metà dei senatori e deputati che siedono nei due rami del parlamento americano appartengono alla minoranza dei super ricchi. Ciò non è solo dovuto ai costi proibitivi delle campagne elettorali che fanno sì che solo pochi privilegiati possano “comprarsi” un seggio (sia con le proprie risorse personali sia con quelle che vengono loro offerte dalle lobby finanziarie che li sponsorizzano, le quali ne condizioneranno il voto dopo che verranno eletti), ma è anche e soprattutto l’esito di un progressivo processo di integrazione fra élite economiche, politiche, accademiche e mediatiche, ben simboleggiato dal meccanismo delle “porte girevoli” che fa sì che le stesse persone assumano in successione le più alte cariche direttive nelle imprese private, nelle istituzioni pubbliche, nei partiti e nel mondo culturale (università, giornali, tv, ecc.). Questo sistema “truccato” (come è stato definito dall’esponente dell’ala socialista del Partito Democratico Bernie Sanders) non ha più nulla a che vedere con le regole della democrazia, ma è espressione di un regime che autori come Colin Crouch hanno definito post democratico (vedi Colin Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2013).
Se le cose stanno così, è evidente che nessun ritorno alle politiche socialdemocratiche appare possibile in assenza di radicali sconvolgimenti economici, politici e culturali, senza cioè che si verifichi una vera e propria rivoluzione. I fallimenti dei progetti neo socialisti di Sanders negli Stati Uniti e di Corbyn in Inghilterra dimostrano che queste nuove sinistre non sono all’altezza del compito, non solo perché condizionate dagli apparati delle sinistre tradizionali ormai convertite al credo neoliberista (con le quali i leader appena citati non hanno avuto il coraggio di tagliare i ponti), ma anche perché è fallito il loro tentativo di saldare i movimenti femministi, antirazzisti, LGBTQI+, ambientalisti ecc. con i movimenti dei lavoratori e, per capire le ragioni per cui è fallito, occorre interrogarsi sul perché le classi lavoratrici preferiscono in larga maggioranza votare per i populisti di destra (tutte le ricerche sui flussi elettorali confermano che in tutto l’Occidente a votare per le sinistre sono i membri delle classi medio-alte che abitano nei centri gentrificati delle metropoli, mentre le masse che vivono nelle periferie votano in massa a destra).
Uno dei pochi seri tentativi di rispondere all’interrogativo è quello della coppia di sociologi francesi Boltanski-Chiapello (vedi L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014) i quali, analizzando la scissione fra “critica artistica” e “critica sociale” verificatasi alla fine dei Settanta (la prima concentrata su rivendicazioni dei diritti di specifiche minoranze, di fatto compatibili con il sistema capitalistico e sempre meno attenta a quelle delle classi lavoratrici), hanno ben descritto il nuovo spirito del capitalismo (che altro non è se non il capitalismo woke di cui parla Rhodes). Il merito di questi autori è avere colto le radici di classe del fenomeno: a mano a mano che le classi medie riflessive che erano state protagoniste delle lotte anti autoritarie della fine dei Sessanta e dei primi Settanta entravano a far parte di una rinnovata casta dirigente (nelle imprese, nei media e nelle istituzioni), plasmavano una nuova cultura manageriale “progressista”, ma sostanzialmente compatibile con le regole del sistema. In altre parole: non è che il capitalismo woke abbia manipolato le nuove sinistre o che, al contrario – secondo la narrazione conservatrice – si sia fatto manipolare da esse, si tratta piuttosto della spontanea formazione di un blocco socioculturale che incarna l’illimitata capacità adattiva del capitalismo alle mutate condizioni storiche in cui si trova via via ad operare.
Rhodes è del tutto incapace di cogliere questa realtà perché ancorato a una visione ingenua, irenica, di una democrazia che non è mai realmente esistita, se non come facciata politica di un sistema socioeconomico fondato sullo sfruttamento e sull’oppressione capitalistica della forza lavoro. Per lui il conflitto sociale non è lotta di classe bensì confronto fra opinioni. Così leggiamo, fra le altre cose, che “l’etica può sfidare il sistema stesso su cui poggia il capitalismo”; che non si tratta di condannare l’attività imprenditoriale in sé perché “le imprese possiedono il potenziale per sostenere la democrazia”; che “la politica democratica si fonda sulla convinzione che le persone (cioè gli individui non i popoli!) abbiano il diritto di governarsi da sole”; che “i consumatori detengono il potere della domanda (!!??)”; che, citando Greta Thunberg, “è l’opinione pubblica che governa il mondo libero (!!??); infine che non c’è niente di sbagliato nel fatto che gli attivisti LGBTQI+ si siano rivolti alle aziende per raccogliere consensi, in quanto si tratta di ”un’azione democratica dei cittadini che hanno utilizzato l’influenza delle imprese”.
Il nostro ritiene di essere portatore di una cultura anticapitalista, ma il suo anticapitalismo si riduce in buona sostanza a combattere l’evasione fiscale da parte delle imprese e delle minoranze dei super ricchi. Sembra cioè convinto che, una volta che tali risorse siano state recuperate e messe al servizio del bene pubblico, sarà possibile restaurare il paradiso socialdemocratico (ammesso sia mai realmente esistito). Il guaio è che anche questo programma minimo appare irrealizzabile nel contesto di un capitalismo come quello americano che domina oggi l’intero Occidente (e in particolare le sue propaggini anglofone come quell’Australia di cui Rhodes è cittadino) e che sta lottando con le unghie e i denti contro tutte le nazioni emergenti che ne minacciano l’egemonia. Le nuove sinistre credono che basti vincere le battaglie per il riconoscimento dei diritti delle minoranze che esse rappresentano per minare le basi del sistema, ma è proprio un fenomeno come il capitalismo woke a dissipare simili illusioni: è vero che il capitalismo ha via via saputo sfruttare i conflitti razziali, di genere, etnici e religiosi per dividere i lavoratori e rafforzare la propria egemonia, ma è altrettanto vero che è in grado di sopravvivere anche riconoscendo i diritti di neri, donne, e minoranze varie cooptandone una parte nell’élite.
Un esempio? Le star dello spettacolo e dello sport che “lottano” per gli obiettivi cari a Rhodes godono di retribuzioni di entità scandalosa perché percepiscono una quota dei sovraprofitti capitalistici. Le rivendicazioni di uguaglianza di genere, razza e quant’altro sono tutte realizzabili nel quadro del sistema esistente, purché non mettano in questione l’unica vera rivendicazione incompatibile, vale dire la distribuzione egualitaria del plusvalore prodotto dai lavoratori. In verità non è che Rhodes manchi di porre questo obiettivo, ma lo inserisce nell’elenco al pari di altri, mettendolo cioè sullo stesso piano delle varie rivendicazioni delle sinistre politicamente corrette. Finché non gli verrà invece attribuito il posto d’onore, finché non gli verrà cioè riconosciuto il ruolo di conditio sine qua non per la realizzazione di tutti gli altri, i lavoratori continueranno a lasciarsi sedurre dalla demagogia dei populisti di destra, e a tenersi alla larga dal chiacchiericcio politicamente corretto che percepiscono come un discorso oggettivamente divisivo rispetto agli interessi generali del popolo degli ultimi. In effetti, mentre si indigna per le accuse di autoritarismo che i conservatori rivolgono agli ayatollah del politically correct, Rhodes tace sulle pratiche di certi movimenti (dalla caccia alle streghe scatenata dal movimento MeToo, alla cancel culture che pretende di riscrivere la storia “correggendo” i capolavori del passato accusati di sessismo e razzismo, passando per una serie di paradossali manifestazioni di intolleranza condannate anche dalle più avvedute esponenti del movimento femminista come Nancy Fraser) siano effettivamente autoritarie, intolleranti e cariche di disprezzo nei confronti delle classi inferiori (vedi in proposito J. Friedman, Politicamente corretto. Il conformismo culturale come regime, Mimesis, Milano-Udine 2018).
Concludo con un’ultima annotazione critica. Nel lavoro che sto qui discutendo ho trovato ben pochi accenni all’oppressione e allo sfruttamento dell’Occidente capitalistico nei confronti delle altre nazioni. Si aggiunga che, partendo evidentemente dalla convinzione che all’Occidente spetti il monopolio dell’unica vera forma di democrazia, Rhodes non condanna l’arroganza criminale con cui ci auto attribuiamo il diritto di “esportarla” – anche con la violenza – nel resto del mondo, quasi questa pretesa fosse un aspetto marginale della disuguaglianza. Vedi in merito il capitolo in cui esalta la lotta “democratica” dei cittadini di Hong Kong contro il regime “totalitario” di Pechino, senza fare cenno 1) al fatto che Hong Kong è una ex colonia dell’imperialismo inglese da poco restituita alla sovranità cinese; 2) che sfruttando il regime transitorio di questa enclave in attesa della sua piena integrazione nella madre patria, essa viene utilizzata come rifugio per autori di crimini (soprattutto economici) commessi in Cina, nonché come paradiso fiscale di capitali sottratti al controllo della Cina popolare; 3) che serve da base logistica di quei servizi occidentali che alimentano, organizzano e finanziano i movimenti anticinesi perseguendo gli stessi obiettivi di “regime change” che perseguono in tutti gli altri Paesi che si oppongono all’egemonia angloamericana.