di Alessandra Ciattini, docente universitaria di Antropologia Culturale, presidente Università popolare “A. Gramsci”, redazione de “La Città Futura”.
Nelle varie costituzioni borghesi i diritti umani si distinguono in diritti civili quali la libertà di pensiero, la libertà personale, di riunione, di religione ed ancora la libertà economica (proprietà privata), diritti politici, relativi alla partecipazione attiva alla vita politica, e quelli sociali concernenti diritto al lavoro, all’assistenza, allo studio, tutela della salute etc. In questo ultimo caso lo Stato dovrebbe favorire le condizioni in cui essi possano compiutamente concretarsi, come prevede la nostra Costituzione.
Nella loro totalità essi costituiscono il frutto di una complessa costruzione ideale, che è sorta e si è sviluppata nell’ambito della civiltà occidentale ed è connessa al tema dell’individualismo e all’idea della comune origine dei singoli individui.
La sua fase aurorale deve esser fatta risalire al pensiero stoico e al diritto romano, benché non si escludano apporti provenienti da altre tradizioni culturali. Nell’ambito del primo è possibile scoprire, infatti, l’idea di un diritto naturale, quale dimensione che precede il diritto positivo e che si fonda sulla convinzione che la natura sia governata da un’immanente legge naturale, intesa come Logos. Questo tema, presente anche nel diritto romano, viene riscoperto in Occidente, intorno al secolo XI-XII, quando si comincia a studiare il Digesto giustinianeo, un’antologia delle opere dei giuristi romani, la cui compilazione risale al VI sec. d. C.
Dalla articolata riflessione giuridica su questi testi emerge la nozione di aequitas, cui i glossatori medioevali si ispirano, intendendola come una serie norme di carattere morale e religioso, quindi derivanti da Dio, che dovrebbero costituire il fondamento su cui costruire le leggi, che ogni ordinamento storico concreto si dà, per regolare una giusta convivenza tra gli uomini. In sostanza, ciò che scaturisce da tale fase aurorale è l’idea che vi sia una dimensione fondativa, cui occorre richiamarsi per l’elaborazione del diritto positivo, la quale lo precede e che per tanto non può esser da esso stravolta.
A questa impostazione si richiamano tutte le celebri Dichiarazioni dei diritti dell’uomo, che ritroviamo nella Dichiarazione d’indipendenza scritta da Thomas Jefferson, nei documenti della Rivoluzione francese, compresa la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina di Olympe de Gouges (1791), e nei documenti successivi e più recenti come la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata nel 1948 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
Naturalmente il sorgere di questa rilevante costruzione ideale è avvenuto in stretto parallelo con straordinarie trasformazioni politico-economiche; infatti, l’affermarsi dei diritti umani è strettamente legato alla costituzione e al consolidamento della borghesia. Entrambi questi processi si sono realizzati con l’affermarsi del capitalismo, in primis in Gran Bretagna, dove l’espropriazione dei mezzi di produzione (in particolare la terra goduta in comune dai contadini) si è fondata sui cosiddetti enclosure acts;con questi ultimi tra il XVI e il XIX secolo le terre demaniali furono concesse ai privati, già proprietari terrieri o esponenti della borghesia mercantile, i quali erano nelle condizioni di appropriarsene e di recintarle. Con questo processo ed altri analoghi si dava vita ad una massa di lavoratori senza mezzi per sostentarsi e riprodursi, che saranno successivamente impiegati nelle manifatture.
Inoltre, con l’arrivo in Europa delle risorse depredate brutalmente alle colonie, si dà avvio alla cosiddetta accumulazione primitiva, altro pilastro del graduale passaggio, avvenuto con grandi costi umani, ad una fase economico-politica nuova, in cui un ruolo economico determinante è esercitato dalla borghesia, la quale vuole far corrispondere a tale preminenza un’adeguata funzione politica. Per raggiungere tale obiettivo, che stravolge l’organizzazione feudale, la borghesia deve proclamare il diritto alla libertà, all’uguaglianza e proporre un ideale di fratellanza universale che accumunerebbe le diverse classi. Pertanto, la borghesia trionfante, ma più spesso in accordo con le antiche classi dominanti, mette in discussione l’ordinamento politico proprio dell’Ancien Régime, il quale – come è noto – era basato sulla monarchia ereditaria di diritto divino, su un sistema di esenzioni fiscali e di privilegi a tutto vantaggio della nobiltà e del clero, sull’ereditarietà degli uffici giudiziari e finanziari; esercizio accompagnato da corruzione e favoritismi.
È contro questo sistema politico-sociale, segnato da profonde ineguaglianze e inauditi privilegi, ancora legato in larga parte alle attività agricole, che la borghesia insorge, proclamando in prima battuta con vigore ed entusiasmo tutti quei diritti, che costituiscono il nucleo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789; diritti successivamente ripresi e ampliati con l’aggiunta di diritti economico-sociali, culturali e collettivi. Dichiarazione, firmata da tutti i paesi facenti parte attualmente delle Nazioni Unite, che prevede – è bene ricordarlo – all’Articolo 1: Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza (per leggere il resto, https://www.ohchr.org/sites/default/files/UDHR/Documents/UDHR_Translations/itn.pdf).
Sarebbe difficile negare che nell’attuale situazione internazionale, compreso il nostro paese, nonostante tante affermazioni retoriche, i diritti ivi menzionati siano rispettati, ma non è questo il tema di cui vogliamo occuparci.
In questa sede vogliamo piuttosto sottolineare che, dopo che i settori più moderati dei rivoluzionari francesi presero il potere con il celebre colpo di Stato del 27 luglio 1794 (Termidoro), con il quale si pose termine al dominio dei giacobini e si condannarono Robespierre e i suoi compagni alla ghigliottina, la Dichiarazione dei diritti era diventata un documento troppo radicale, che la borghesia alta e media, giunte al potere non potevano tollerare. Si procedette, pertanto, all’eliminazione dell’estrema sinistra, che in nome dell’uguaglianza pretendeva misure a vantaggio dei meno abbienti, e si dette avvio ad una politica economica liberista e revisionista sul piano giuridico. Per esempio, la Convenzione aveva abolito il 4 febbraio del 1794 la schiavitù, ma Napoleone, ormai liberatosi anche del Direttorio, la ripristinò nel 1802, per conservare il consenso dei latifondisti delle colonie. Processi simili si verificarono nella limitazione del suffragio universale secondo i criteri più adeguati ai vari contesti, come le leggi elettorali maggioritarie imposte negli ultimi decenni in Italia.
Pertanto, con la sconfitta della sinistra rivoluzionaria si assiste ad una revisione dei diritti stabiliti dalla Dichiarazione, ad una loro rimodulazione in modo che non mettano a rischio la nuova struttura di classe, che ben presto incorpora al suo interno anche i ceti dominanti nell’Ancien Régime.
Partendo dalla constatazione che l’emergere della società borghese e la trasformazione della società feudale comporta simultaneamente l’affermazione dei diritti umani, dall’altro lato non può negarsi che al contempo questi fenomeni sono legati al formarsi della nuova struttura di classe: proprietari dei mezzi di produzione / salariati. In questo contesto, a seconda dei rapporti di forza tra le classi, i diritti umani nella loro totalità, al cui consolidamento ed estensione i lavoratori debbono contribuire, diventano lettera morta. E si impone così la cosiddetta democrazia formale, o meglio quella che Marx ed Engels definivano la “democrazia volgare”, nella quale se i diritti civili e politici vengono formalmente rispettati, gli altri sono spesso completamente trascurati (si pensi al diritto al lavoro, alla sicurezza in questo ambito), per la semplice ragione che tale organizzazione definita democratica si fonda su una disuguaglianza di base: le differenti condizioni economico-sociali dei suoi membri. Pertanto, quest’ultima si fonda sull’illusione (più o meno consapevole) di poter paradossalmente coniugare l’uguaglianza con la disuguaglianza, considerando per esempio il rapporto tra datore e lavoratore un rapporto tra uguali. Le condizioni delle classi lavoratrici nella società contemporanea mostrano a quali disastri conduce tale illusione, dalla quale non si può venir fuori se non con una radicale trasformazione sociale.
Pur consapevoli che il nodo fondamentale da sciogliere per costruire una società realmente democratica, fondata sull’autogoverno dei lavoratori, è rappresentata dalla contraddizione capitale/lavoro, questi ultimi sono fortemente interessati all’ampliamento dei diritti previsti dalle costituzioni borghesi e al loro effettivo esercizio. E ciò per la semplice ragione che tali processi garantiscono maggiori spazi democratici in cui lottare per superare la contraddizione fondamentale sopra indicata, purché non ci si faccia inglobare dalla borghesia in un generico “popolo”. Infatti, occorre ribadire che il popolo costituisce l’unione di classi differenti (comprendenti nel 1848 il proletariato, i contadini, la borghesia rivoluzionaria); differenze che diventano vistose in caso di vittoria del cambiamento, quanto i diversi interessi di classe si palesano chiaramente.
Quanto alla questione dei nuovi soggetti rivoluzionari, tra i quali le donne, apparsi negli anni ’60, è da rigettare ogni prospettiva che intende trasferire la funzione rivoluzionaria ad altri strati sociali incapaci di paralizzare la produzione di un solo colpo, che non hanno un ruolo chiave nel processo produttivo, che non sono la fonte principale del profitto e dell’accumulazione del capitale. D’altra parte, le donne, che nella maggioranza sono lavoratrici salariate, fanno pienamente parte del soggetto rivoluzionario e debbono far inserire tutte le loro rivendicazioni specifiche già in un programma minimo, i cui contenuti debbono essere volti a migliorare la condizione femminile, alla socializzazione di molti aspetti del lavoro di cura e di accudimento della nuova generazione, alla piena incorporazione nella vita politica e sociale.
Tuttavia, sarebbe illusorio pensare di abolire la famiglia, già fortemente attaccata dal capitalismo contemporaneo che vuole di fronte a sé lavoratori isolati e atomizzati, giacché essa, trasformata e rivitalizzata, dovrebbe rappresentare l’ambito, in cui l’individuo acquisisce quella stabilità psicologica che ne fa un attore sociale cosciente.
Nella prospettiva qui delineata, in cui si vuole costruire una società volta alla vita e non alla distruzione di massa dell’umanità, tutte quelle funzioni che solo la donna può svolgere debbono essere valorizzate e sostenute dalla collettività. Ciò significa che uguaglianza e differenza debbono essere coniugate in maniera differente da quanto avviene nella società borghese in cui, infatti, c’è chi aspira ad un’astratta uguaglianza tra uomo e donna, dimenticando sia l’innegabile differenza tra i sessi (e la specificità femminile) sia la considerazione di Marx: trattare allo stesso modo persone disuguali produce soltanto l’incremento della disuguaglianza.
Pertanto, concludendo, i diritti della donna sono al contempo civili, politici e sociali, e come si è visto le tre dimensioni non possono essere scisse, se si vuole veramente rendere concreto il loro compiuto esercizio. Chi sottolinea solo gli aspetti culturali, ideologici, politici della questione femminile consapevolmente o inconsapevolmente occulta la contraddizione principale della società capitalista e pone in contrapposizione le diverse categorie di diritti, che invece per realizzarsi hanno bisogno l’uno del sostegno degli altri.