Song Ci. Un eroe del Rinascimento Cinese

di Carlo Formenti

Oltre che un accanito lettore di letteratura “alta”, sono un consumatore seriale di romanzi di genere (gialli, noir e science fiction) qualche esemplare dei quali difficilmente manca sul comodino accanto al letto. Se vado in libreria per acquistare un saggio, butto un occhio anche sugli scaffali che ospitano questo tipo di libri e, quando passo dall’edicola, verifico se lo spazio riservato alla letteratura pop (vedi Giallo Mondadori e Urania) offre qualche novità. Ecco perché, qualche giorno fa, non mi è sfuggito un giallo intitolato Final Witness. Incuriosito per l’insolita lunghezza (quasi seicento pagine, laddove i testi di questa collana raramente raggiungono le trecento) e per il nome dell’autore, Wang Hongjia (avevo letto con gusto i romanzi di genere di altri autori cinesi), mi sono affrettato ad acquistarlo.

Nei giorni successivi l’ho praticamente divorato, pur essendomi subito reso conto che il testo che avevo fra le mani non era un giallo “classico” – benché del giallo presenti alcuni ingredienti – bensì un intrigante romanzo storico ambientato nella Cina del XIII secolo. Wang Hongjia, oltre a occupare un ruolo di primo piano nell’Associazione degli Autori Cinesi, e ad avere vinto importanti premi letterari, è uno studioso della società dell’informazione, ma soprattutto è un romanziere e un esperto di storia cinese. Questo Final Witness è il suo lavoro più conosciuto (tradotto in molte lingue occidentali) e ha come protagonista Song Ci, un funzionario della dinastia Song (960-1279), medico, magistrato e scienziato forense ante litteram, noto per avere pubblicato (nel 1247) un libro intitolato L’eradicazione dei mali. Casi di ingiustizia rettificata che documenta la sorprendente modernità dei suoi metodi d’indagine, che anticipavano di secoli quelli dell’Occidente contemporaneo. Ma soprattutto, come spiegherò più avanti, aiuta a capire certi aspetti della Cina di oggi e il suo peculiare mix di marxismo e confucianesimo.

Prima di entrare nel merito del racconto, è il caso di ricordare che è ambientato al tempo della dinastia Song, prima che questa soccombesse all’occupazione da parte del mongolo Kublai Khan (l’imperatore di cui riferisce il Milione di Marco Polo), cioè in un’epoca associata a una straordinaria fioritura della civiltà cinese. Il governo Song, fra le altre cose, è stato il primo a livello mondiale a emettere vera carta moneta, ha costruito una marina militare permanente, ha sviluppato il commercio marittimo su lunga distanza, utilizzato la bussola e la polvere da sparo e a dotato il proprio esercito di nuove tecnologie belliche. Nello stesso periodo la produzione agricoltura subì un forte incremento grazie all’introduzione di nuove tecniche, propiziando l’aumento della popolazione e accrescendone il benessere. Infine diede un forte impulso alla crescita della burocrazia statale, che ridimensionò i poteri locali dell’aristocrazia terriera e creò le condizioni per lo sviluppo dell’arte, della cultura e delle scienze filosofiche, matematiche e ingegneristiche, anche grazie allo viluppo dell’editoria, che sfruttava l’invenzione della stampa a xilografia e dei caratteri mobili, risalente al secolo XI.

Song Ci fu un esponente di spicco di questa specie di Rinascimento in salsa cinese ma, prima di raccontarne la storia, va detto che quella di Wang Hongjia è una biografia romanzata, in cui l’autore  scioglie le briglie alla fantasia onde integrare le scarse informazioni storiche di cui si dispone sulla vita e le opere del protagonista, e – ciò che farà sicuramente piacere ai lettori più portati all’intrattenimento che allo studio – “condisce” la narrazione con intrighi, delitti e duelli di arti marziali che evocano i colossal storici di registi come John Woo (controbilanciando certe lungaggini descrittive che, ancorché interessanti come documenti della vita quotidiana e delle relazioni sociali e familiari dell’epoca, rischiano di annoiare il lettore medio occidentale).

Song Ci era figlio di un alto funzionario governativo, il quale, prima di morire, gli lasciò in eredità l’ingiunzione tassativa di seguire la sessa strada. Prima di farcela, il giovane Song Ci dovette affrontare i durissimi esami per divenire funzionario imperiale, riuscendovi solo al terzo tentativo, malgrado l’assiduo impegno e la brillante intelligenza (a leggere la descrizione che Daniel Bell fa (1) fa dell’arduo percorso che i candidati devono affrontare per accedere alle alte cariche del Partito Comunista e dello Stato cinesi, da allora le cose non sono così cambiate).

Un ritratto di Song Ci

Dopodiché scopriamo che superare gli esami non comportava automaticamente la nomina a un incarico governativo (così come ai tempi nostri chi vince un concorso universitario, per poter insegnare deve attendere la “chiamata” da parte di un ateneo). Per Song Ci l’attesa sarà particolarmente lunga: solo a quarant’anni otterrà il posto di cancelliere presso un tribunale provinciale. Ma tutto quel tempo non andrà sprecato: il funzionario in pectore lo impiegherà per accumulare una cultura mostruosa attraverso lo studio di centinaia di libri nei campi della scienza medica, del diritto, nonché della casistica di celebri processi e della filosofia. Questa vasta erudizione, assieme alle straordinarie capacità intuitive, ne faranno una sorta di Sherlock Holmes ante litteram, consentendogli di ricostruire le dinamiche di innumerevoli delitti, incastrando molti colpevoli e scagionando molti innocenti (il pensiero corre al monaco-detective medievale del Nome della rosa di Umberto Eco). Per ottenere questi brillanti risultati, il nostro sviluppa inedite tecniche di indagine: esami autoptici, test biologici, metallurgici e chimici su armi, tessuti, residui vegetali e alimentari raccolti sulla scena del delitto, ecc. Applicherà inoltre le conoscenze mediche acquisite in anni di studio per curare ferite, avvelenamenti e malanni vari. Si circonderà inoltre di un gruppo di assistenti e guardie del corpo che lo accompagneranno per tutta la vita, salvandolo da alcuni attentati e aiutandolo a catturare pericolosi delinquenti.

Superando i confini provinciali la sua fama gli vale una serie di promozioni che lo obbligano a viaggiare per tutto l’impero assieme alla moglie e alla figlia (che perde la vita in un attentato che avrebbe dovuto togliere di mezzo lui). Finché verrà chiamato a ricoprire il ruolo di supervisore delle carceri imperiali. In questa veste scopre gli orrori di un sistema giudiziario che si basa sulla presunzione di colpevolezza: coloro che vengono accusati di determinati crimini, anche se non sussistono prove, vengono trattenuti in carcere a tempo indeterminato, in attesa di un improbabile chiarimento dei rispettivi casi. Song Ci ribalta questa logica, adottando di fatto il principio di presunzione di innocenza, per cui fa scarcerare migliaia di detenuti (in larga maggioranza contadini poveri) e impone ai giudici di riesaminare i casi che considera dubbi. Descrivendo quest’azione riformatrice, Wang Hongjia mette in luce lo scontro di classe che genera simili ingiustizie. I contadini, oltre a subire gli effetti di carestie e disastri ambientali, come le frequenti inondazioni, sono vittime dei tiranni locali (proprietari terrieri e grandi commercianti) i quali, per difendere i propri privilegi contro i tentativi governativi di ridimensionarne il potere, assoldano bande di mercenari e ricorrono alla corruzione sistematica dei funzionari locali (2). Song Ci si trova così impegnato in una lotta senza esclusione di colpi con aristocratici, burocrati corrotti e soldataglie al servizio degli uni e degli altri. Spinto da una inestinguibile sete di giustizia e al tempo stesso frustrato dall’impossibilità di riparare tutti i torti di cui viene a conoscenza, paga la tensione invecchiando rapidamente e andando incontro a una morte precoce (nel racconto di Hongjia, pur malato e confinato sul letto di morte, riuscirà ugualmente a risolvere un ultimo caso).

Wang Hongjia

Perché ho detto che questo romanzo ci fa capire certe cose della Cina moderna? Provo a sintetizzare. In primo luogo, è difficile non vedere nell’opera di Hongjia una metafora del ruolo del Partito Comunista Cinese come una sorta di gramsciano Principe moderno (3). Così come il grande regista russo Sergej Ejzenstejn mise in scena nel film Ivan il Terribile la lotta dello zar contro i boiardi per celebrare quella di Stalin contro i kulaki, analogamente Hongjia descrive il conflitto fra il potere imperiale (incarnato dal funzionario onesto Song Ci) i tirannelli locali e i burocrati corrotti come una metafora della lotta del PCC contro i nemici del popolo e della rivoluzione cinese. Al tempo stesso, Song Ci incarna un potere buono che difende gli interessi delle masse contadine contro i potenti che le opprimono, un potere che può apparire paternalistico agli occhi della cultura occidentale ma che, come è stato osservato (4), risponde allo specifico concetto di democrazia di un popolo che non bada al rispetto delle procedure ma al fatto se il potere agisce concretamente per tutelare gli interessi delle masse. Comprendiamo così come l’attuale relazione fra Stato, comunità e partito sia profondamente radicata nella tradizione millenaria di un grande Paese che non è mai passato sotto le forche caudine di un feudalesimo paragonabile a quello del nostro Medio Evo (5) e, al tempo stesso, capiamo i motivi della rivalutazione dell’etica confuciana da parte del PCC.

In conclusione, mi pare che il romanzo possa essere considerato come un’operazione di “soft power” che, valorizzando le conoscenze scientifiche e filosofiche, le invenzioni tecniche e le pratiche empiriche in auge nella Cina del XIII secolo – che testimoniano di un livello di civiltà che anticipava di secoli quello dei popoli e delle culture occidentali – riscatta la storia cinese dalle umiliazioni infertegli dalla colonizzazione da parte delle potenze europee. Senza dimenticare che il guru del liberalismo inglese Adam Smith, come ricorda Giovanni Arrighi (6), era consapevole che, non solo la civiltà, ma anche l’economia cinese, almeno fino alla fine del secolo XVIII, era di gran lunga più prospera, equilibrata ed armoniosa di quella del nascente capitalismo occidentale. Più la Cina popolare si avvia a rappresentare una potenza mondiale in grado di contrastare l’egemonia degli Stati Uniti, più le sue élite moltiplicano l’impegno per riscoprire e valorizzare le radici della sua civiltà millenaria, più diventa importante per tutti noi coglierne il senso.

Note

(1) Cfr. D. Bell, Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia, Luiss, Roma 2019. Nel mio ultimo libro (Guerra e rivoluzione, vol. II, p. 45) scrivo a proposito delle tesi di Bell:” Per definire questo complesso sistema di governance (in continua evoluzione sul piano legislativo e istituzionale), Bell utilizza la formula di “meritocrazia democratica verticale”. Alle nostre orecchie suona come un ossimoro, ma Bell ce ne spiega il significato descrivendo  le procedure di selezione della leadership politica. Come nell’antica Cina imperiale, il sistema ha lo scopo di selezionare una élite attraverso esami e valutazioni delle prestazioni ai livelli di governo locali. La proverbiale durezza e competitività dei percorsi universitari è il primo ostacolo che devono affrontare tanto i candidati alla carriera politica quanto quelli alla carriera statale. Il passo successivo consiste nei non meno impegnativi esami per il pubblico impiego, dopodiché si può accedere ai livelli più bassi di governo, e ogni successiva promozione dipende esclusivamente dalla qualità delle prestazioni realizzate”.

(2) Il conflitto fra potere centrale e tiranni locali, in cui il primo si allea con le classi subalterne, e/o crea un proprio apparato professionale (burocrati, magistrati, polizia, ecc.) estraendone i quadri dalle classi intermedie, per sconfiggere i secondi è un leitmotiv di diverse epoche storiche in differenti contesti socioeconomici e culturali. Si pensi al ruolo di sovrani come il Re Sole o Ivan il Terribile nella formazione dello stato moderno. Quanto al tema della corruzione dei magistrati locali da parte delle vecchie aristocrazie per contrastare il potere dello stato centrale, si tratta di un problema ancora più diffuso nello spazio e nel tempo, che non riguarda solo la transizione fra il medioevo e il mondo moderno, ma permane in quest’ultimo persino laddove si siano verificate rivoluzioni sociali: vedi le periodiche campagne contro la corruzione condotte dallo Stato-Partito della Repubblica Popolare Cinese.

(3) Sulla concezione gramsciana del Partito come Principe moderno cfr. A. Gramsci, Quaderni dal carcere, 4 voll., Einaudi, Torino 2014.

(4) Cfr. D. Bell, op. cit. In Guerra e rivoluzione (cit., pp. 42, 43) scrivo: “Le accuse di totalitarismo, di disprezzo per le regole e i principi democratici nonché per i diritti umani nei confronti della Cina sono un mantra che media, governi e partiti occidentali ripetono ossessivamente. A confutare questo luogo comune è, fra gli altri, Daniel Bell, uno studioso canadese che da anni vive e insegna in Cina. Bell parte da un dato di fatto: il sistema cinese rappresenta la definitiva smentita della tesi secondo cui la democrazia liberale di tipo occidentale è il sistema verso cui tutti i Paesi evolvono “naturalmente”, a mano a mano che al loro interno si sviluppa un’economia di mercato e si raggiungono diffusi livelli di benessere. Tutte le ricerche rivelano che i cittadini cinesi non condividono la nostra concezione “procedurale” di democrazia, cui non attribuiscono alcun valore. Il loro concetto di democrazia è di carattere “sostanziale”, nel senso che si preoccupano soprattutto delle conseguenze che un determinato sistema politico è in grado di produrre per le loro vite e i loro interessi. Per il cinese comune, la democrazia non si misura in termini di principi e i valori, bensì in relazione al livello di sicurezza che lo Stato-partito è in grado di garantire, al fatto se fa o meno gli interessi della maggioranza del popolo, ciò che fa sì che il livello di legittimità del sistema politico cinese, grazie ai risultati ottenuti in termini di lotta alla povertà, aumento dei livelli di reddito e delle opportunità di accesso ai servizi sociali nella seconda fase del processo riformista, è molto più elevato di quello che i cittadini di molti Paesi occidentali riconoscono ai rispettivi governi.”

(5) Nel suo libro Eurocentrismo (La Città del Sole, Napoli-Potenza 2022) un grande teorico marxista come Samir Amin sostiene che il “sorpasso” delle nazioni europee nei confronti della Cina (ben più avanzata di esse fino al secolo XVIII) è potuto avvenire grazie a un paradosso: la maggior arretratezza del nostro Medioevo rispetto al florido Oriente, ha alimentato rivoluzioni borghesi radicali che hanno accelerato il processo della storia. (6) A proposito del giudizio di Smith sulla Cina, e della interpretazione che ne dà Giovanni Arrighi in Adam Smith a Pechino (Feltrinelli, Milano 2007), scrivo nel mio Guerra e rivoluzione (cit., p, 12): “ Adam Smith non fu tanto l’apologeta del mercato autoregolantesi che basta lasciare operare liberamente perché generi spontaneamente la ricchezza delle nazioni, quanto colui che auspicò l’esistenza di uno Stato forte, in assenza del quale non possono darsi le condizioni di esistenza del mercato stesso. I suoi consigli al legislatore, aggiunge Arrighi, furono sempre di ordine sociopolitico piuttosto che economico, né si proponevano esclusivamente di agevolare l’interesse e il potere dei capitalisti: la sua idea di fondo era che, se si vuole perseguire l’interesse generale, occorre stimolare la competizione per tenere il più basso possibile il saggio di profitto. Detto altrimenti: i mercati non devono essere abbandonati al loro sviluppo spontaneo, bensì “usati” come strumenti di controllo e di governo, una tesi, sostiene Arrighi, che ci consente di capire la logica delle “economie di mercato non capitalistiche”, delle quali la Cina rappresenta un esempio tipico. Smith lo aveva intuito già nel 1776, allorché scriveva che la Cina era più ricca di qualsiasi Paese europeo, attribuendo il carattere “stazionario” della sua economia – cioè il fatto che non fosse mossa dalla spinta all’accumulazione illimitata – al fatto che essa aveva raggiunto la pienezza di ricchezze consentita dalla natura del suolo, dal clima e dalla posizione geografica.  Ma ciò che è più interessante è che Smith definiva come “naturale” questo tipo di sviluppo, basato sull’agricoltura e sul commercio interno, mettendolo in contrapposizione con lo sviluppo “innaturale” delle economie europee, basato sul commercio estero (e sulla potenza militare forgiatasi dai conflitti intereuropei, aggiunge Arrighi), un modello, secondo Smith, assai meno favorevole di quello “naturale” all’interesse nazionale.”