di Sergio Leoni
Pubblicato a puntate su un quotidiano americano, tra il novembre del 1842 e il gennaio del 1843, come era, peraltro, consuetudine di quegli anni per tutti i grandi romanzi, Il mistero di Marie Roget venne letto, probabilmente, come la naturale continuazione di un’altra opera dello stesso autore, “I delitti della Rue Morgue che, oggi è ormai evidente, segnarono a loro volta la nascita e il consolidamento effettivo di quello che diventerà un genere letterario di grande successo e che ancora oggi occupa una grande parte nelle offerte di ogni libreria: il genere letterario che solo in qui Italia è definito “giallo”.
E del resto è lo stesso autore che rivendica la continuità e in un certo senso la complementarietà tra le due opere quando, in una specie di prologo a Il mistero di Marie Roget, dichiara: “in uno scritto intitolato I delitti della Rue Morgue tracciai un profilo delle eccezionali facoltà del mio amico, il cavaliere C. August Dupin”. Il personaggio, cioè, che risolve il mistero del cosiddetto delitto della stanza chiusa (dall’interno), mistero che diventerà poi un tema ripreso da più di uno scrittore.
Da questo punto di vista la critica letteraria nel suo insieme non ha più molto da scoprire, allo stesso modo in cui deve ormai essere data per scontata l’influenza, ma in realtà molto più che una semplice influenza, che hanno avuto questi due libri, e in particolare le figure dei due protagonisti principali, nell’opera complessiva di Arthur C. Doyle, perfino in dettagli di non poco conto.
Impossibile non vedere nel personaggio di Sherlock Holmes una versione aggiornata (Arthur C. Doyle nasce nel 1859, quando già Poe è sepolto da sedici anni) del “cavaliere” Dupin. “Cavaliere”, appunto, e non commissario o membro della polizia, che svolge infatti le sue “indagini” quasi come un hobby o, più precisamente, come un esercizio intellettivo, un dispiegarsi di una logica “deduttiva” che pare infallibile.
Holmes riprende in pieno e amplifica, semmai, il carattere dell’investigatore che non ha praticamente bisogno di sporcarsi le mani, di andare sui luoghi dei delitti. In parte, per la verità, qualche volta lo fa, ma il lettore sa bene che le soluzioni dei casi a cui si interessa uno spesso svogliato (e oppiomane) Sherlock Holmes, sono tutte frutto delle sue deduzioni, dell’applicazione della sua “logica”.
Il caso estremo, la “nuova” prassi di risolvere i casi “senza” muoversi dal proprio studio, sarà poi quello di Nero Wolff, altra grande figura letteraria per la penna di Rex Stout che, a tutti gli effetti, è l’estremizzazione (con tutte le evidenti forzature e debolezze strutturali) di un metodo che, in qualche modo, potrebbe anche essere considerato figlio, magari illegittimo, di una stagione in cui la fiducia nel progresso e nella ragione ha fornito le basi di un positivismo la cui stagione è stata, per altri aspetti, piuttosto breve.
E come non vedere poi l’altra grande similitudine, nello schema dei romanzi dei due autori che emerge, attraverso tra due figure solo apparentemente secondarie ma che poi si delineano, nella struttura della narrazione, elementi di primo piano?
Certo, il personaggio di Watson è ben più delineato rispetto a quello, speculare, che svolge l’io narrante di Poe stesso.
Ma il senso ultimo, il costrutto letterario, se non è propriamente lo stesso, è quantomeno fortemente analogo. Entrambi rappresentano la pagina bianca su cui l’investigatore, il logico, il deduttivo, scrive i suoi appunti; collaboratori con il cui dialogo serve a fare il punto, passo dopo passo, per arrivare, quasi con un metodo “socratico”, ma qui non conviene esagerare in paralleli suggestivi ma sostanzialmente deboli, alla soluzione del caso di turno.
Torno a ripeterlo. Siamo di fronte a questioni non più tanto aperte a nuovi sviluppi, ma ad analisi su cui la critica letteraria ha ampiamente discusso.
Ma allora, perché Il mistero di Marie Roget ci dice qualcosa in più, qualcosa che, forse, non è stata presa in considerazione in maniera adeguata?
Andiamo per ordine e partiamo da un presupposto, la cui validità è ancora da dimostrare ma che può tornare utile per una prima analisi di un testo che certo non ha la forza evocativa e comunque la “drammaticità di altri racconti di Poe.
L’opera di un autore, e tanto più se lontano nel tempo, può e forse deve essere considerata come un unicum.
Alcuni autori hanno voluto “disconoscere” alcune loro opere (di solito quelle giovanili). Hanno cercato di cancellarle.
Operazione non solo del tutto inutile, come è chiaro, ma perfino controproducente.
A questo genere di operazione, E. A. Poe non si è mai prestato, almeno per quel tanto che se ne sa di un autore di cui si sono voluti accentuare aspetti di vita piuttosto che contributi letterari.
E davvero la sua opera ci appare come un unicum, un concerto in cui è possibile ascoltare, per chi ha orecchio, molte note inaspettate.
La vicenda narrata ne Il mistero di Marie Roget riprende un fatto reale, l’uccisione a New York di una giovane commessa.
Poe sceglie di ambientare la storia in una Parigi, nella cui descrizione non vengono risparmiati, seppur tra le righe, scenari inquietanti in cui certi delitti, se non arrivano ad apparire come “normali”, pure ne viene data per scontata la possibilità, o, più cinicamente, la “probabilità”. Oggi, quegli stessi luoghi sono altrettante tappe dei soliti tour turistici, e niente conservano di quelle immagini che, peraltro, probabilmente non volevano neanche essere in qualche modo “realistiche”.
Ma, in quell’Ottocento denso di avvenimenti politici e sociali che debordano come onda lunga nel secolo successivo, una storia come quella raccontata in queste pagine diventa paradigma di una condizione sociale e metro di giudizio morale, e forse non etico.
Siamo, mi pare, di fronte all’eventualità in cui un caso di cronaca e il racconto letterario che lo recupera come paradigma di uno status quo, diviene la migliore cartina di tornasole per definire o leggere un’epoca. Sono momenti rari nella storia della letteratura, ma l’Ottocento è forse stato, in questo senso, il periodo più fecondo.
Viene in mente allora, ed è più di una suggestione, l’inizio del romanzo Il nostro comune amico, di un Charles Dickens particolarmente inspirato, in cui si descrive, con un andamento che anticipa certi espedienti di cui si servirà il cinema molti anni dopo, la scena di una barca di “pescatori” di cadaveri sul Tamigi, gente che va a spogliare quei poveri resti non per avidità ma per mera sopravvivenza. La statistica gioca a loro favore: un annegato nel Tamigi non manca mai.
La vicenda della bellissima commessa che scompare, poi riappare, nuovamente scompare e infine viene ritrovata cadavere nella Senna, è la storia di un crimine, di indagini svolte da una polizia che sostanzialmente brancola nel buio, di una campagna giornalistica che segue (come oggi) in maniera ossessiva un caso estremamente controverso.
Ma qui il genio del cavaliere Dupin sbroglia la matassa.
Il “metodo” di Dupin è quello “deduttivo”. Per lui, la semplice lettura delle cronache dei giornali, la pubblicazione degli interrogatori dei personaggi coinvolti nella storia, tutto quello che viene portato a conoscenza dell’opinione pubblica, tutto questo, e “non di più”, e qui sta la novità, è sufficiente per trarre conclusioni. E perfino per smascherare un colpevole.
Peraltro, riguardo al caso avvenuto in America e che ispira questo libro, effettivamente Edgar Allan Poe diede la soluzione del caso, semplicemente informandosi sui media del suo tempo, e cioè semplicemente sui giornali.
Tutto questo lo ritroviamo nelle grandi opere di E. A. Poe?
Voglio dire: siamo di fronte ad una anomalia, ad una piega che l’autore aveva preso in anni giovanili e che poi ha abbandonato per rivolgere la sua attenzione letteraria al fantastico e all’orrifico?
O, piuttosto, non c’è una qualche forma di continuità, un filo logico che lega le avventure investigative del cavaliere Dupin con i temi dei grandi racconti che, normalmente, e non senza forzatura, vengono definiti “dell’orrore”?
Forse converrebbe chiedersi, almeno per quanto riguarda alcuni di essi, se essi stessi non vengano concepiti dall’autore come meccanismi ben congegnati, ben collaudati, “solamente” per creare nel lettore una suspense, un senso di sospensione, giusto prima di cadere in un abisso in cui la paura deve essere il sentimento dominante per dare, come in ogni “giallo” che si rispetti, una soluzione inaspettata ma perfettamente logica. E che peraltro ripristina un ordine sociale, ordine minacciato ma, dopo tutto, preservato.
Lovercfraft, che in maniera improvvida è stato paragonato a Poe, è stato un maestro nel costruire realtà alternative in cui il terrore giunge a colpire i protagonisti in maniera totalizzante. Ma i mostri di Lovercraft sono entità che vivono nella profondità della terra, metafora fin troppo evidente di un inconscio, o di reconditi spazi mentali, di cui si può solo, drammaticamente, prendere atto.
Nella produzione letteraria di Edgar A. Poe non c’è spazio per mostri o per creature, anche le più orribili.
La paura, e il terrore che ne diviene il passo successivo, nasce solo in parte da elementi esterni alla mente di un uomo. Il panico, ultima fase di questo estraniamento, è sempre giocato all’interno di una coscienza alterata o compromessa.
Come, del resto, appare evidente in molti racconti di Poe.
La mia tesi, ma più semplicemente ipotesi di lavoro, è che, a dispetto del giudizio che è spesso è stato dato di E. A. Poe, di essere cioè “solo” un autore di testi che si rifanno ad una tradizione di racconti dell’orrore, di cui in qualche modo egli sarebbe il miglior depositario e forse il capostipite per una nuova stagione, è sostanzialmente falsa. Un racconto come La rovina della casa Usher potrebbe far pendere il giudizio da questo punto di vista.
Ma La maschera della morte rossa indica già un approccio del tutto diverso, in cui la fatalità, l’inesorabilità del destino non esiste più ma lo svolgimento del racconto sembra essere l’espressione più feroce di una nemesi, mano di un capovolgimento di cui è impossibile ignorare il portato sociale: la morte rossa che stermina una società gaudente e inconsistentemente frivola.
La logica, la deduzione, con il rigore che comporta, e con la serenità di chi ha compreso la realtà, sono i termini entro cui si muove un autore che tuttavia, giova ripeterlo, è stato giudicato troppo spesso per i suoi comportamenti, per il suo stile di vita, considerati, in maniera quantomeno banale, come decisivi per la formazione e il consolidarsi del suo stile.
Il personaggio, sia detto senza alcun giudizio di valore, l’ha probabilmente consentito.
E buona parte della critica ha, tuttavia, insistito su aspetti caratteriali, sulle debolezze di un uomo certamente preda di demoni a noi sconosciuti, quasi che questo aspetto della personalità dell’Autore sia stato il solo e unico motore di una produzione che, al contrario, risulta fortemente variegata e certamente più complessa.
Ma, volendo scendere nel particolare, volendo capire come questo autore si è mosso, letteralmente parlando, ecco che conviene analizzare, ed eventualmente “rileggere” certi racconti.
Il caso Valdemar è una incursione quasi inevitabile, per i temi trattati dall’Autore e negli anni in cui egli scrive, sulla questione del cosiddetto “mesmerismo”, allora ancora una pseudoscienza ma che sembrava aprire grandi prospettive nel campo della distinzione tra morte e vita, e nella possibilità di creare un “ponte” tra questi due stati. Naturalmente, anche in quegli anni, e a seguito delle suggestioni di nuove scienze che sembravano poter aprire nuovi scenari, si discuteva sul senso della vita, sulla sua durata, sulla sua eventuale prosecuzione oltre la morte.
In questo racconto c’è insomma, da un lato, una sostanziale fiducia nella scienza. Ma, dall’altro, in maniera forse più inquietante, il dubbio per uno stato di vita “intermedio” che, dopo tutto, non regge al vaglio dell’analisi scientifica e si risolve in una catastrofe che è, insieme, catarsi e liberazione da una condizione di vita impossibile.
L’altro grande racconto di Poe che ci conduce ancora una volta nelle trame di una logica che è tanto stringente quanto perturbante, è Il demone della perversità.
Il racconto si sviluppa su una trama del tutto semplice, perfino “banale”, banale ma tragico come può essere, non da oggi, un omicidio. Un omicidio, dunque. Per una serie di circostanze, tale delitto sembra poter diventare il classico caso mai risolto, se non addirittura il “delitto perfetto”.
Senonché, ed è questa la chiave di uno stravolgimento totale della prospettiva che il lettore si attende, l’assassino, il protagonista, capisce che l’unico modo in cui egli stesso potrebbe essere scoperto e denunciato, l’unico modo consiste nel fatto che egli “confessi” il delitto.
Ed è questa idea, all’inizio semplice constatazione, che scava nel profondo non tanto nella coscienza dell’uomo, che non prova alcun sentimento di pentimento rispetto al delitto commesso, ma che diventa man mano un’ossessione che non ha altra spiegazione se non nel fatto, “perverso”, che l’unica persona che può denunciare il delitto e rivelare il colpevole è egli stesso.
Perché dovrebbe farlo? Non c’è alcuna logica in tale gesto, se non, appunto, quella della perversità.
Alla fine, è evidente, l’assassino confessa, in maniera plateale.
Momento di liberazione, senso di alleggerimento che provano i colpevoli confessando un qualunque delitto?
Niente di tutto questo.
È tutto solo frutto della “perversione”, quella che spinge a fare cose che non sono logiche, non sono giuste.
E la follia non c’entra niente.
Catalogare, o almeno tentare di collocare Edgar A. Poe in un solo genere letterario sembra, a questo punto, ma è una constatazione che la migliore critica ha acquisito da anni, diventare praticamente uno sforzo inutile.
Anche quando, come avvenne in una meritoria antologia uscita intorno agli anni ‘70, molta parte della sua produzione letteraria venne raccolta con un titolo che oggi appare quantomeno “improbabile” (Racconti del terrore), ci si poteva tranquillamente rendere conto che si era di fronte ad un personaggio complesso, ad uno scrittore capace di lavorare su più piani letterari.
Poe è sempre sfuggito, di fatto, ad una definizione che potesse comprenderlo nel suo insieme.
Uno scrittore che concepisce un romanzo del tutto “straniante” come Gordon Pym, su cui varrebbe la pena di ritornare, si pone inevitabilmente non solo tra i grandi della letteratura ma smentisce definitivamente una sorta di leggenda che lo vuole autore incapace di spaziare su temi diversi lontani tra loro.
C’è un filo logico che lega Il mistero di Marie Roget a Gordon Pym?
Il mio giudizio è affermativo.
E non si tratta del fatto, del tutto banale, che esse sono opere di un autore che ha conosciuto, come molti altri, “fasi” creative diverse e dai diversi effetti e risultati.
Penso che Edgar Allan Poe, così come Beethoven ha scritto tutte le nove sinfonie in Do, creando nove capolavori, ha raccontato con uno stile letterario in apparenza monocorde, con una scrittura inconfondibile, altrettanti capitoli di una disanima della condizione umana, della sua tragedia che, vissuta in prima persona, assume un valore inestimabile.