di Laura Baldelli*
Nel 2022, durante l’inasprimento del conflitto in Ucraina, abbiamo assistito alla ignobile demonizzazione e rimozione dell’arte russa, compresa quella dell’800, dal panorama culturale europeo, addirittura annullate opere liriche, sospesi corsi di letteratura russa, rifiutati concerti, discriminati attori, musicisti, pittori, poeti e scrittori, triturati in una follia collettiva. Oggi avviene per la cultura del già martoriato popolo palestinese: la scrittrice Adania Shibli si è vista annullare il premio alla fiera del libro di Francoforte. Quanta ignoranza nell’omologata ed asservita civiltà occidentale! Il fanatismo del mondo neoliberale e neoimperialista nelle sue discriminazioni ci ha ricordato la “cultura il Terzo Reich” e vale la pena riportare alla memoria quello che accadde con le persecuzioni nei confronti degli artisti, definiti “degenerati” ed esposti al pubblico ludibrio nella “Entartete Kunst”, Mostra sull’arte degenerata.
L’arte degenerata: per le artiste donne fu doppia discriminazione
Dopo il periodo della Repubblica di Weimar e l’ascesa di Hitler, il potere politico si caratterizzò con l’eliminazione sistematica di ogni forma di opposizione ed espressione di pensiero diversi dal nazionalsocialismo, e anche tutto ciò che avrebbe potuto influenzare il popolo tedesco, comprese le confessioni religiose e l’espressione artistica.
La Germania nazista, al fine di avere un controllo totale sulla società e la vita culturale per condizionare il pensiero di ogni cittadino tedesco ariano, marchiò come “Entartete Kunst”, cioè “arte degenerata”, tutte le avanguardie artistiche, con il preciso intento di sincronizzare vita quotidiana e cultura.
L’arte in ogni sua declinazione fu un formidabile strumento di divulgazione dell’ideologia nazionalsocialista, affiancando la propaganda affidata al cinema, alla radio, alla stampa per creare un immaginario collettivo condiviso e sotto controllo.
È nota la frustrazione di Hitler come pittore senza talento e il sentimento di rivalsa, che una volta al potere, si tradusse in un’avversità verso le straordinarie avanguardie del ‘900 ed una rilettura della storia dell’arte, funzionale ad un unico modello ed ideale di bellezza di immediata comprensione.
Ma questi concetti e soprattutto il termine “degenerato”, precedono Hitler e Joseph Goebbels, il principale artefice dell’arianizzazione della cultura, che causò l’allontanamento e l’esilio di artisti e scienziati; furono le idee generate dal Positivismo, che purtroppo favorirono un pensiero pseudo-scientifico, deciso a giustificare il colonialismo e l’imperialismo del liberismo economico della civiltà occidentale a caccia di materie prime necessarie alla seconda rivoluzione industriale.
Il progresso tecnico-meccanico del mondo occidentale fu considerato espressione di superiorità intellettuale e di civiltà, rispetto alle società di altri popoli; idee supportare dalla obbrobriosa, quanto priva di alcun fondamento scientifico, classificazione delle razze in base al colore della pelle e alla fisiognomica. Infatti la pseudo-scienza di Cesare Lombroso influenzò e generò classificazioni, discriminazioni sociali e di genere, sfociando nel darwinismo sociale legato la propagazione genetica.
Inoltre, paradossalmente, il concetto di “degenerazione” fu fatto proprio da un altro medico, l’ungherese ebreo Max Nordau, fondatore del sionismo, che partendo dalle idee di Lombroso, teorizzò che molti artisti delle avanguardie, fossero portatori ereditari di follia e che la degenerazione dell’arte fosse il frutto della degenerazione dell’animo dell’artista.
Fu lo stesso pensiero che guidò l’allestimento della mostra sull’arte degenerata a Monaco nel 1937 “Entartete Kunst”, dopo i “bucherverbrennugen”, i roghi dei libri nel 1933 e la chiusura della scuola del Bauhaus.
La “Reichsklturkammer”, la Camera della cultura del Reich, in un clima di ostilità, organizzò una vera e propria “purga dell’arte” nei confronti della ricerca artistica, togliendo dai musei tedeschi le opere delle avanguardie del cubismo, dadaismo, espressionismo, astrattismo, realismo magico, surrealismo, fauvismo, cacciando dall’insegnamento studiosi ed artisti ritenuti una minaccia per lo stato, trafugando dalle case degli ebrei tedeschi moltissime opere d’arte: si parla di 6000 opere, tra quadri e sculture, di cui molte finirono sul mercato americano, altre distrutte, ma alcune furono appunto sbeffeggiate in una mostra grottesca, allestita con questa finalità.
Furono esposte le opere di 112 artisti, non solo tedeschi ma anche internazionali, tra cui Vassily Kandinsky, Otto Dix, Georg Gronz, Paul Klee, Max Beckmann, Ludwig Kirkner, Max Ernst, Edvard Munch, Marc Chagall, la cui “pericolosità estetica” era una minaccia politica, perché il nazismo era pervaso dalla paura dell’ignoto, del diverso, della contraddizione, dell’inquietudine, dell’anticonformismo. Fu incluso anche Emil Nolde per la sua pittura modernista, nonostante avesse aderito al nazismo.
La mostra esponeva 650 opere degenerate, toccò 11 città tedesche e austriache, con l’obiettivo che i lavori artistici fossero derisi e disprezzati, perché espressione di corruzione, distorsione della natura e truffa all’arte vera, nonché strumenti della cospirazione giudeo-bolscevica. L’espressionismo e i suoi artisti subirono un particolare accanimento, in quanto fu dichiarata “l’arte del brutto”, affermatasi in un momento di grande fervore artistico durante la Repubblica di Weimar.
Le opere erano oltraggiate con slogan ed affiancate ai lavori artistico-espressivi dei pazienti ricoverati nei manicomi. Le opere furono raggruppate secondo la loro pericolosità culturale: verso le donne, i soldati, i contadini tedeschi, la razza ariana. Ne ricordiamo una per tutte: “L’agitatore” di Grosz, opera espressionista del 1928 che raffigura Hitler, il politico da birreria bavarese, rappresentato grottescamente al centro del quadro con in mano un sonaglio ed in megafono, compaiono la svastica, il manganello, gli stivali da soldato, mentre promette benessere e piaceri anche sessuali
La mostra, nonostante la propaganda l’avesse definita “la camera degli orrori artistici”, superò numericamente ben tre volte la mostra sull’arte germanica, tanto che dovette essere prolungata: più di 1 milione e 200000 persone la visitarono, nonostante le lunghe attese in fila per entrare.
Molti visitatori acquistarono le opere sottobanco, specie quelle di Kandinsky, con la scusa di irriderle in casa propria, e fu così che si salvarono molti capolavori. Emanuel e Sophie Fohn riuscirono ad acquistare più di 250 opere degenerate, barattate con opere d’ispirazione romantica di loro proprietà.
L’arte di regime del Terzo Reich fu in mostra contemporaneamente ne “La grande rassegna di arte Germanica”, ospitata nella lussuosa sede della Haus der Deutuschen Kunst: la scultura monumentale di Arno Brecker, nel culto del corpo e della bellezza germanica nello stereotipo biondi, alti e forti, inseguendo una religione della perfezione, fu il leit-motiv del modello estetico che rappresentava la nuova Germania.
Nella sua scultura di propaganda c’è un richiamo al mondo classico e al neo-classicismo, che esclude però la ricerca dell’armonia, per attraversarlo invece da “possente slancio e volontà” nell’anatomia della nudità perfetta, con l’intento di esaltare il corpo maschile e femminile. Ma quei corpi scolpiti di muscoli, a cui i e le giovani tedeschi/e si ispiravano, sarebbero poi stati carne da macello e strumento di procreazione della razza pura germanica per il destino mortale della guerra.
Le sculture di Brecker, contestualizzate nelle opere architettoniche e nell’urbanistica di Albert Speer, l’architetto del Reich, sono perfette; ma l’architettura di Speer era macchiata del sangue, quello dello sfruttamento di manodopera in regime di schiavitù. L’arte e la bellezza non ci rendono migliori, né salveranno il mondo se non si rispettano i principi di umanità e del diritto.
Della scultura di Brecker ne fu influenzata l’opera cinematografica di Leni Riefenstahl, la regista di “Olympia”, dove l’occasione di celebrare la germanicità dei corpi nudi della gioventù nazista raggiunse l’apice.
Ma dopo la premessa che contestualizza e storicizza l’arte definita “degenerata”, spazio e visibilità va alla discriminazione delle artiste, donne che già per il semplice fatto di essere donne-artiste e fare dell’arte il proprio lavoro, era un’impresa titanica, visto il contesto culturale che pesava in tutto il mondo e non solo nella Germania nazista.
Le artiste subirono umiliazioni e offese doppiamente, in quanto non rispecchiavano nel loro stile di vita, giudicato sconveniente, immorale come la loro arte, quel modello di donna germanica che onorava e serviva l’uomo e la patria.
La vita e le opere di queste donne straordinariamente coraggiose vanno ripercorse e ricordate per combattere l’oblio del tempo, ma anche dei pregiudizi sempre in agguato in ogni epoca.
Infatti, oltre la persecuzione nazista, il tempo ha fatto sì che Jeanne Mammen fosse conosciuta a livello internazionale soltanto nel 2018, 40 anni dopo la sua morte, alla mostra alla Tate Modern di Londra.
Formatasi con studi internazionali a Bruxelles, a Parigi e a Roma, fu pittrice ed illustratrice di moda e lavorò negli studi cinematografici; dipinse la vita notturna berlinese, la società parigina, sempre dal punto di vista delle donne, lontano dal sentimentalismo e carico invece di desiderio sessuale anche lesbo e queer. Sperimentò l’acquerello delicato, ma l’influenza del cubismo e dell’espressionismo cambiarono i colori della sua tavolozza. Nel 1933 con il nazismo al potere le sue opere furono bandite, le riviste per cui lavorava furono chiuse. Ma non si fermò: per vivere vendette anche libri per strada, senza paura sperimentò il cubismo, condannato come arte degenerata e dopo la guerra si dedicò all’astrattismo e nella nuova Germania, pochi anni dopo, fu di nuovo “riscoperta”.
Maria Gaspar Filser fu la prima pittrice tedesca che diventò professoressa in accademia, ma poi nel ’33 i nazisti le revocarono l’incarico e tutte le sue opere furono rimosse dai musei e dalle gallerie tedesche, perché accusata di produrre arte degenerata. Dopo la guerra poté di nuovo tornare alla biennale di Venezia e il suo paese le riconobbe meriti ed onorificienze.
L’artista Elfriede Lohse Watchther morì tragicamente: fu omicidio di stato con il progetto action T4, ovvero la pianificazione dell’eliminazione dei malati mentali e disabili fisici, in cui morirono 70000 cittadini tedeschi, tra cui molti bambini; la rincorsa alla pura razza non accettava la fragilità.
Elfriede fu un’artista che trattò con originalità il tema femminile, rifiutando gli stereotipi visivi sulle donne e sui loro ruoli, lavorò all’interno del GEDO, un collettivo di artiste ad Amburgo, città cosmopolita e ricca di fermento culturale. Frequentò gli artisti del tempo, vestì stravagante e produsse lavori originali sperimentando le arti applicate. Famosi furono i suoi ritratti delle prostitute lontane dai luoghi comuni della rappresentazione iconografica maschile: le dipinse con la gestualità di un’identità consapevole, per nulla subordinata, anzi densa di rivalsa femminile verso il mondo maschilista e patriarcale. Finì in manicomio per il trauma della fine del suo matrimonio a causa della vita parallela condotta dal marito. In ospedale psichiatrico fu prolifica pittrice, ritraendo le pazienti ricoverate come aveva fatto con tutte le altre donne, sottolineando la loro femminilità, piuttosto che la loro malattia. La sua libertà espressiva non giocò a suo favore, fu dichiarata schizofrenica, non fu mai liberata da detenzione e nel ’35, in base alla legge sulla prevenzione della nascita di persone affette da malattie ereditarie, fu umiliata con la violenza della sterilizzazione coatta, che le procurò un ulteriore crollo emotivo: smise anche di dipingere e si abbandonò al dolore. Nel ’37 molte sue opere furono distrutte perché espressione di arte degenerata, altre esposte per essere derise nella famosa mostra dell’arte degenerata. Nel ’40 arrivò malnutrita e sofferente alla clinica della morte Pirna-Sonnenstein, dove “le vite indegne di essere vissute” furono soppresse.
Dopo dolorosa storia di Elfriede, ricordiamo Marg Haeffner Moll, pittrice e scultrice che collaborò anche con Hanri Matisse, girò tutta Europa dipingendo, scolpendo, studiando. Fu bollata anche lei come artista degenerata e la sua scultura la “Danzatrice” fu esposta alla mostra dell’arte degenerata e purtroppo andò perduta. Nel ’43 la sua casa fu distrutta sotto i bombardamenti alleati assieme alle sue opere, a quelle del marito e alla loro collezione di dipinti di Leger, Braque, Picasso. Finita la guerra ricevette riconoscimenti dalla nuova Germania come artista poliedrica che attraversò diversi stili pittorici nel suo percorso artistico.
Emy Roeder fu un’altra disegnatrice scultrice espressionista tedesca che viaggiò per l’Europa ricevendo riconoscimenti e premi; in Italia a Firenze la raggiunse il marchio di “artista degenerata” e la notizia delle sue opere rimosse dai musei tedeschi. Infatti molti dei suoi lavori furono distrutti dai nazisti e mentre risiedeva ancora in Italia, dopo la liberazione di Firenze nel ’44, fu arrestata in quanto tedesca ed internata in un campo a Padova, dove però le fu permesso di continuare la sua attività artistica. Tornata in Germania insegnò scultura all’accademia di belle arti di Amburgo ed oggi le sue opere sono esposte in molti musei nel mondo.
Paula Becker, un’altra artista degenerata, studiò a Parigi, intraprendendo una vita indipendente ed anticonformista, tanto che osò dipingersi in un autoritratto durante la sua gravidanza, nuda con il pancione nel 1907, ma morì lo stesso anno poco dopo il parto, senza arrivare a compiere 32 anni. Dopo la sua morte nel 1927 le fu dedicato un intero museo a Brema a lei intitolato, il primo al mondo dedicato ad una donna; divenne famosa anche per le sue opere epistolari e durante il nazismo i suoi quadri furono rimossi da 70 musei in Germania.
Tra le degenerate incontriamo anche Jacoba Berendina van Heemskerck van Beest, un’artista olandese, designer di vetrate e grafica, nonché pittrice, figlia di un ufficiale della reale marina olandese con la passione per la pittura. Infatti ricevette dal padre le prime lezioni di pittura, prima di frequentare la Royal Academy Art nel suo paese. A Parigi incontrò l’arte moderna come il cubismo, per poi andare verso l’astrattismo. Incontrò artisti famosi come Piet Mondrian e in Olanda lasciò diverse vetrate in edifici pubblici e residenze private. Dopo la sua morte improvvisa, avvenuta nel ’23, furono organizzate mostre sia in Olanda che in Germania, ma nel ‘33 fu dichiarata artista degenerata.
Gabriele Munter fu un’altra pittrice di talento, non fu inserita tra le artiste degenerate, ma a lei vanno molti meriti e soprattutto visibilità dopo le discriminazioni subite. Incoraggiata dalla sua famiglia studiò pittura, scultura, incisione, nonostante la preclusione di tali studi alle donne e sfidando la morale dell’epoca, visse un lungo periodo accanto a Kandinsky in un rapporto tormentato anche artisticamente, in quanto fu sempre oscurata dalla fama di lui. Addirittura la nuova critica sostiene invece che fu lei ad influenzare Kandinsky, prima del periodo astrattista. Attraversò diversi stili seguendo le avanguardie, il colore rappresentò per lei il modo per esprimere lo spirito della civiltà moderna e l’alienazione, le agitazioni sociali e politiche, tanto che la pittura divenne un’esperienza visiva istantanea, rendendo i suoi lavori originali e caratterizzando la cifra del suo stile. La Munter subì il divieto di esporre i suoi lavori, ma non fu inserita tra le artiste degenerate e tenne un basso profilo, nascondendo e salvando la sua collezione di opere d’arte dalla crociata nazista contro l’arte degenerata, nonostante le numerose perquisizioni: salvò dipinti di Kandinsky, Klee, Mark, Kubin. Finita la guerra tornò ad esporre e anni dopo donò la sua preziosa collezione alla Stadtische Galerie im Lenbachhaus di Monaco di Baviera.
Charlotte Salomon, anche se non fu bollata come artista degenerata, merita un ricordo speciale: discriminata in quanto studentessa ebrea, fu cacciata dall’accademia delle belle arti di Berlino e poco dopo il padre fu internato nel campo di concentramento di Sachsenhauser. Scappò in Olanda, poi in Francia, ma la sua vita fu disseminata di lutti con il suicidio della madre e della nonna. Durante la detenzione nel campo di concentramento a Gurs in Francia iniziò lo straordinario racconto per immagini della sua vita, dove i disegni si alternano a parti scritte, ma anche a partiture musicali, creando un’opera d’arte totale. La sua espressione artistica fu influenzata da Chagall e dalle avanguardie storiche. Il suo racconto è una grafic-novel dal titolo “Vita O teatro?”, con un taglio cinematografico che va oltre il semplice diario: è uno stratagemma per la rielaborazione ed esorcizzazione dei lutti e delle sofferenze procurate dalle persecuzioni razziali. Charlotte a 26 anni, consapevole del suo destino, consegnò tutta la sua opera, che è anche la sua vita, al medico di famiglia; infatti morì in cinta poco dopo, appena arrivata ad Auschwitz il 10 ottobre 1943. Possiamo vedere tutta la sua opera ad Amsterdam al Joods Historisch Museum. A Berlino in Wielandstrabe n°15 c’è una pietra d’inciampo che la ricorda. In Italia Castelvecchi ha pubblicato la sua opera.
Le Storie personali, stanno dentro la Storia, anzi ne sono l’espressione più preziosa, c’insegnano quanto sia preziosa l’umanità nella sua diversità e quanto le discriminazioni siano un danno per tutti.
Riportarle alla memoria, raccontarle, rendergli almeno una giustizia postuma, ci arricchisce e ci sprona a vigilare, a non abbassare mai la guardia perché corrono brutti tempi.
* Della redazione nazionale di “Cumpanis”; del Gruppo di Lavoro Arte, Cultura e Comunicazione del Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”.