di Alberto Fazolo
La destabilizzazione in Medio Oriente e le dinamiche attorno al Mar Rosso fanno parte della risposta statunitense all’allargamento dei Brics. Il bersaglio è il nascente mondo multipolare.
Da fine ottobre le forze Houthi dello Yemen hanno lanciato dei missili verso la città israeliana di Eilat che affaccia sul Mar Rosso e successivamente hanno preso ad attaccare i bastimenti che vi erano destinati o vi provenivano. Al contempo, hanno colpito le navi israeliane – o in qualche modo riconducibili agli interessi d’Israele – in transito di fronte alle proprie coste. Il governo degli Houthi, che ha legami con l’Iran, ha sferrato queste azioni per mostrare vicinanza alla Palestina.
Ciò ha portato ad una forte instabilità e a una drastica riduzione del traffico navale in tutto il Mar Rosso. Ora gli armatori preferiscono circumnavigare l’Africa sia per motivi di sicurezza, sia perché i premi assicurativi per le navi che attraversano il Mar Rosso sono notevolmente cresciuti.
Ciò rappresenta un grosso danno economico per l’Egitto che dalle royalty del Canale di Suez trae importanti risorse, nello scorso esercizio ben 8,6 miliardi di euro, una cifra strabiliante se paragonata all’annualità precedente, che era del 35% inferiore.
Questo ostacolo al commercio è amplificato dalla contemporanea crisi tecnica del Canale di Panama che a causa della siccità ha visto dimezzato il numero dei possibili transiti. Dal Canale di Suez passa il 12% del commercio marittimo mondiale e da quello di Panama il 3,5%. Ora gli armatori valutano le alternative, ma ben consapevoli che anche quelle non sono esenti da rischi. La rotta marittima artica è praticabile solo per alcune settimane l’anno e comunque risente della pressione geopolitica internazionale, mentre la circumnavigazione dell’America del Sud comporta rischi legati alle avverse condizioni meteorologiche e timori per i possibili sviluppi nella contesa sulle Falkland/Malvinas. Per questi motivi, la circumnavigazione dell’Africa è tornata ad essere una rotta molto in auge. Inevitabilmente però si ha un allungamento dei tempi e un aumento dei costi di trasporto che si trasferiscono sui mercati di destinazione delle merci.
Il Mar Rosso e il limitrofo Golfo di Aden sono da tempo considerati uno dei luoghi in cui la navigazione è più minacciata dalle instabilità geopolitiche. Per questo molti paesi interessati al traffico marittimo su quelle rotte si sono dotati di strumenti per tutelare i propri interessi commerciali. In quest’ottica devono essere inquadrate le presenze di basi militari nel piccolo Stato di Gibuti, dove ne hanno installate Usa, Francia, Italia, Cina, Giappone e Arabia Saudita. Inoltre, Regno Unito, Germania e Spagna hanno dei loro contingenti che si poggiano sulle basi degli altri paesi. Nonostante le dimensioni, Gibuti è uno dei più importanti hub militari del mondo, le forze lì presenti sarebbero tranquillamente in grado di garantire la sicurezza della navigazione sul Mar Rosso. Eppure, con il pretesto di contrastare le azioni degli yemeniti, il 18 dicembre scorso gli Usa hanno lanciato una nuova coalizione militare per il Mar Rosso denominata Prosperity Guardian. Vi hanno aderito Regno Unito e Grecia impegnandosi a inviare delle navi da guerra, ma anche Australia, Bahrein, Canada, Danimarca, Olanda, Seychelles che invece manderanno un esiguo numero di uomini. Annunciando la nascita della coalizione, il segretario alla Difesa americano Lloyd Austin vi annoverava pure Francia, Italia e Spagna che avrebbero dovuto partecipare con delle proprie navi da guerra. Tuttavia, già il 23 dicembre questi tre paesi si sfilavano dalla coalizione senza fornire spiegazioni, ma affermando che le proprie navi sarebbero comunque andate nel Mar Rosso, sebbene non in seno all’operazione Prosperity Guardian. La coalizione americana è naufragata prima ancora di salpare. Complici le distrazioni del periodo natalizio, la stampa europea non ha dato adeguato risalto a questo fatto e non si è premurata di chiederne conto ai rispettivi governi. Al momento non si sanno le ragioni di un così eclatante gesto, ma si possono fare delle ipotesi. La coalizione americana sarà in seno al Cmf (Combined Marittime Force), una forza marittima multinazionale che ha il proprio comando nel Bahrein – cioè ben lontano dal Mar Rosso – nel cuore del Golfo Persico, sulla penisola arabica e proprio di fronte alle coste dell’Iran. Viene quindi da pensare che forse Francia, Italia e Spagna accettarono di partecipare ad una coalizione per il Mar Rosso, ma poi ritrovatesi nella prospettiva di finire nel Golfo Persico, abbiano preferito smarcarsi per scongiurare il coinvolgimento in una eventuale escalation con l’Iran.
D’altronde, è evidente che gli Usa stiano in tutti i modi cercando di fare la guerra con l’Iran. Da subito dopo gli attacchi del 7 ottobre, sia gli Usa che Israele hanno indicato nell’Iran il mandante di quelle azioni. A prescindere dal fatto se ciò sia vero – o almeno se lo sia nelle modalità descritte dai media occidentali – il timore è che quanto successo sia usato come pretesto per una resa dei conti preparata già da tempo. Lo scorso giorno di Natale Israele con un raid sulla Siria ha ucciso un generale iraniano, consigliere militare dell’esercito di Assad; poi, il 3 gennaio, in Iran ci sono stati dei terribili attacchi durante la cerimonia di commemorazione del generale Soleimani ucciso dagli americani in Iraq quattro anni fa. Usa e Israele non hanno esitazioni nel procedere verso uno scontro con l’Iran. Francia, Italia e Spagna non manifestano invece interesse a farsi coinvolgere in un conflitto che potrebbe avere pesanti conseguenze militari ed economiche. Ci sono numerose e riscontrate prove del fatto che Israele si sia dotata di un proprio arsenale nucleare. Al contempo c’è il sospetto che non sia la sola forza nella regione a disporre di tali ordigni, pertanto il rischio che lo scontro diventi di altra natura, è estremamente alto. Le conseguenze economiche di un eventuale conflitto sono altrettanto facili da immaginare; se al blocco del Mar Rosso si aggiungesse quello del Golfo Persico, non si destabilizzerebbe soltanto l’Iran, ma tutta la penisola arabica con inevitabili contraccolpi sui mercati energetici.
Se per gli Usa l’obiettivo militare è l’Iran, quello politico sono i Brics. Dal primo gennaio vi sono entrati a far parte Iran, Egitto, Etiopia, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Gli Usa stanno fomentando lo scontro dall’Africa Orientale all’Iran, proprio nell’area in cui si trovano questi paesi, li vogliono punire per aver sposato l’idea del mondo multipolare.
Se le forniture di idrocarburi della regione dovessero essere compromesse dal precipitare degli eventi, non ci sarebbe solo un aumento dei prezzi, ma anche una corsa mondiale per garantirsi le forniture di altri paesi produttori. Forse si potrebbe inquadrare in quest’ottica il repentino e inatteso mutamento d’atteggiamento degli Usa verso il Venezuela, paese ricco di giacimenti di idrocarburi. Nel turbine degli eventi dello scorso natale, in pochi hanno notato due gesti che possono esser letti come un tentativo di Washington finalizzato a cercare di restaurare le relazioni con Caracas. Il primo è la liberazione di Alex Saab, l’inviato del governo venezuelano illegalmente detenuto negli Usa dal 2021. Saab è estremamente popolare in Venezuela e la sua scarcerazione porta un immediato ritorno in termini di consenso popolare per Maduro. Il secondo gesto è la non ingerenza degli Usa (fino a poco tempo fa inimmaginabile) nel tentativo di ricomposizione delle dispute territoriali tra il Venezuela e la Guyana. Dopo il referendum dello scorso 3 dicembre che dava a Maduro il mandato di risolvere il problema della definizione dei confini con la Guyana, sembrava scontato un epilogo militare. Eppure, il 14 dicembre si è tenuto a St. Vincent e Grenadine un incontro tra i due paesi alla presenza di capi di governo o rappresentanti di quasi tutti i paesi latinoamericani, nonché di alti emissari dell’Onu. L’incontro ha prodotto un memorandum che disinnesca il rischio dell’esplosione di un conflitto tra i due paesi, anche se il Regno Unito si è mostrato insofferente e ha inviato una propria nave da guerra di fronte alle coste della Guyana. Nonostante ciò, l’accordo siglato è estremamente significativo ed è poco plausibile che sia stato raggiunto senza il consenso degli Usa.
In un ipotetico generale contesto di shock sui mercati degli idrocarburi, agli Usa forse non dispiacerebbe di poter commerciare con Caracas (magari continuando a precludere questa possibilità ai paesi europei), ma per farlo andavano rimossi degli ostacoli politici come la detenzione di Saab e la definizione delle dispute sul confine venezuelano. Ciò ovviamente non significa che il Venezuela stia facendo un cambio di strategia, o che trovi convergenze con gli Usa. Questo a Washington lo sanno bene e di sicuro non si fanno illusioni, però provano comunque ad esplorare quella prospettiva.
La destabilizzazione dell’area dall’Africa Orientale all’Iran è un chiaro attacco al mondo multipolare, gli Usa vogliono punire gli Stati che hanno abbandonato la loro sfera d’influenza per integrarsi in una dinamica diversa che va definendosi. Il mondo sta cambiando e molti nel vecchio continente stentano a capirlo. Non basta smarcarsi dalle avventure militari intorno alla penisola arabica per definire un nuovo posizionamento geopolitico, ma indubbiamente è un timido passo nella giusta direzione. Tuttavia il tempo è poco, bisogna decidere in fretta da che parte stare nel nuovo scacchiere globale.
Immagine: 15th BRICS SUMMIT, PDM-owner, via Wikimedia Commons