di Ascanio Bernardeschi*
«Qualche paese, ossessionato dal mantenimento della propria egemonia, ha fatto di tutto per paralizzare i mercati emergenti e i paesi in via di sviluppo. Chi si sta sviluppando rapidamente diventa il suo obiettivo di contenimento; chiunque stia recuperando diventa il suo obiettivo di ostruzione. Ma tutto questo è inutile, perché ho detto più di una volta che spegnere la lampada degli altri non porterà luce a se stessi.»
(Il presidente cinese Xi Jinping al 15° summit dei BRICS a Johannesburg in Sudafrica)
Il contesto generale
Il prossimo vertice dei paesi del BRICS di Johannesburg avrà un paio di argomenti assai temuti dal blocco occidentale a guida statunitense: quello della creazione di una nuova moneta che rimpiazzi il dollaro negli scambi internazionali e nelle riserve delle banche centrali e quello dell’allargamento dell’organizzazione: 23 paesi hanno già chiesto di aderire e altri hanno informalmente espresso interesse.
Primo argomento. Questa nuova moneta, o più precisamente unità di conto, basata su un “paniere” di monete dei singoli paesi aderenti al BRICS, dovrebbe non solo essere impiegata da tali paesi e dai nuovi candidati, ma sarebbe utilizzabile da qualsiasi altro paese lo desideri, mettendo seriamente in discussione la supremazia del dollaro che fino a oggi aveva consentito agli States di vivere alle spalle del resto del mondo stampando moneta.
I due argomenti stanno in stretta connessione. Per esempio è estremamente importante sapere che fra i paesi che hanno chiesto di aderire all’organizzazione ci siano l’Arabia Saudita, l’Iran e l’Algeria i quali, uniti alla Russia, detengono le maggiori risorse energetiche del mondo. È importante perché verrebbe meno il motivo principale, accanto a quello costituito dalla potenza militare USA, del dominio del dollaro, cioè il suo uso esclusivo per acquistare petrolio (i cosiddetti petrodollari).
Ciò che si prevede verrà sancito nel vertice è qualcosa che è già in itinere: la moneta cinese ha già superato il dollaro nelle transazioni bilaterali della Cina e già diversi acquisti di petrolio si stanno effettuando con pagamenti in valute nazionali.
Anche la detenzione di titoli del debito USA da parte di Cina, Arabia Saudita ed altri si va riducendo molto sensibilmente e ciò costituisce, al di là di come si manifesta esteriormente la crisi, una causa di fondo dei guai finanziari e dei fallimenti che si stanno registrando negli Stai Uniti, con ripercussioni importanti nella finanza internazionale. L’aumento dei tassi USA, che ha determinato la svalorizzazione dei titoli in pancia al sistema bancario, e con ciò del patrimonio delle banche, è una risposta alla difficoltà di collocare il debito pubblico e alla perdita di competitività del dollaro. Ma tale aumento ha anche ripercussioni nella solvibilità di altre imprese, soprattutto quelle indebitate, che devono affrontare un aumento dei costi per interessi. I fallimenti sono oltre 400 nei primi sei mesi di quest’anno, un livello paragonabile a quello registrato nel corso della crisi del 2008.
La crisi, a differenza che in Italia, sta anche rilanciando la lotta di classe e, nonostante la natura non conflittuale e corporativa dei sindacati USA, si stanno sviluppando importanti lotte e rivendicazioni. Quest’anno le ore di sciopero hanno nettamente superato quelle degli ultimi anni.
Quello che fino a ieri era il leader economico mondiale non lo è più perché la Cina ormai sta superando gli Stati Uniti anche sul piano tecnologico e già è al primo posto nella graduatoria del Pil a parità di potere d’acquisto.
Lo stesso autogol delle sanzioni finanziarie ha accelerato la dedollarizzazione dell’economia e, anziché isolare il “nemico”, ha favorito l’intensificazione suoi dei rapporti internazionali, l’utilizzo di sistemi di pagamento alternativi, e la crescita della sfiducia verso quei paesi che hanno perfino osato rapinare piratescamente le riserve russe in Occidente.
L’altra stampella su cui si reggeva la supremazia del dollaro è quella militare che si è infranta in Afghanistan e si sta infrangendo nella guerra contro la Russia per interposta Ucraina.
Le cose stanno andando diversamente dalle aspirazioni dell’imperialismo e perfino in Africa, si veda il caso il Niger, ci si permette di chiedere gentilmente a Francia e USA di togliere il disturbo.
La narrazione della crisi cinese
I media occidentali, totalmente in mano a poche agenzie, tutte indirettamente o direttamente legate agli interessi imperialistici, con la Cia che, pur da dietro le quinte, contribuisce a tirare le fila, non ci diranno tutto questo e andranno alla ricerca di diversivi per costruire una narrazione in cui venga demonizzato il nemico e si preveda per le sue sorti il peggio possibile. Ecco che, a corto di altri argomenti, i media si sono buttati sul rallentamento della crescita in Cina, rallentamento reale. Tuttavia quel livello di crescita, intorno al 5%, sarebbe considerato strabiliante per le economie occidentali, quasi tutte in stagnazione o in recessione.
Anche l’accentuazione dei toni sulla circostanza che negli ultimi tempi le quotazioni della valuta cinese è diminuita rispetto a quella del dollaro, non tiene deliberatamente conto che la causa di ciò è stato l’aumento dei tassi di interesse sui dollari USA che ne hanno incrementato la domanda, mentre il Remimbi non è indebolito rispetto a altre monete, come per esempio rispetto allo yen giapponese. Analisi approfondite sulla correlazione esistente fra il differenziale dei rendimenti delle due monete e l’andamento delle rispettive quotazioni, stimano che l’80% dei movimenti della quotazione della valuta cinese è spiegato da quel differenziale.
Altro falso allarme riguarda la riduzione delle esportazioni cinesi, -12,9%. Qui il ridicolo non è solo sfiorato, ma centrato in pieno. Nell’ultimo congresso del Partito Comunista Cinese si è infatti deciso di correggere la tendenza verso l’aumento delle esportazioni e di produrre di più per la domanda interna e di passare da una crescita prevalentemente quantitativa all’aumento della qualità della vita e dell’ambiente. E questo è ciò che sta avvenendo. Tuttavia la differenza netta fra esportazioni e importazioni è ancora fortemente attiva.
Infine vanno cianciando sula bolla immobiliare cinese, prospettandone ripercussioni disastrose. Ci stanno raccontando la storia che la prossima recessione sarà innescata dalla Cina. La crisi in cui è impantanato il sistema capitalistico mondiale, così avrà il suo capro espiatorio di comodo, come fu l’epidemia di Covid nella precedente crisi.
La natura reale della bolla immobiliare cinese
Cerchiamo di comprendere cosa sta davvero succedendo in Cina.
Secondo l’economista americano e profondo conoscitore delle economie asiatiche, David Paul Goldman, il problema di quel paese non è la finanza, ma un altro. Quasi 700 milioni di cinesi sono emigrati dalla campagna alla città e ciò ha determinato “il più grande boom fondiario della storia”. Poiché in Cina la proprietà fondiaria è pubblica, in particolare fa capo ai governi locali, questa nuova domanda di case e ha consentito a questi ultimi di finanziarsi concedendo a imprese private l’uso a lunghissimo termine, di norma 75 anni, dei terreni edificabili. In tal modo il settore immobiliare è cresciuto fino a raggiungere oltre un quarto del Pil cinese.
Anche gli utili di quel settore sono cresciuti, e in misura maggiore le aspettative di utili futuri, innescando una corsa speculativa. Come avviene nei momenti di euforia – è il capitalismo bellezza! – le aspettative sono andate oltre il ragionevole e decine di milioni di metri quadri di abitazioni costruite sono rimaste invendute, generando perdite a chi aveva avventatamente investito troppo.
Come sappiamo la Cina, per raggiungere lo strabiliante risultato di togliere dalla povertà assoluta quasi un miliardo di persone, ha dovuto fare dei compromessi con il capitale privato, un po’ come dovette farli Lenin con la NEP. Oggi il capitale ha però caratteristiche assai diverse da allora: le concentrazioni monopolistiche e il livello di finanziarizzazione non ha paragoni con quelle pur rilevanti del tempo di Lenin e il mondo è molto più aperto, o almeno lo era prima dell’inversione degli Stati Uniti verso il protezionismo. Tutto ciò rende più facili i rigonfiamenti delle bolle e più facilmente trasmissibili le crisi dovute al loro inevitabile scoppio.
Per questo il governo di Pechino, cogliendo per tempo la necessità di intervenire, ha iniziato a rendere più stringenti gli standard dei prestiti immobiliari, e ciò ha messo in difficoltà alcune società che vi speculavano. I principali operatori cinesi del settore, Evergrande e Country Gardens, non sono riusciti a effettuare i pagamenti alle scadenze previste dalle obbligazioni ad alto tasso di interesse e Zhongzhi Enterprise sta ristrutturando il suo debito.
La differenza con la crisi USA: in Cina comanda la politica e non la finanza
“Le case sono per vivere, non per la speculazione” sono stati gli slogan del governo e Xi Jinping vuole superare il problema centralizzando le finanze pubbliche e imponendo la disciplina fiscale ai governi locali.
Il governo centrale, che tiene sotto controllo quasi tutto il settore bancario, potrebbe intervenire per coprire le perdite quando vuole spendendo solo, secondo le stime di Goldman, l’1% delle entrate fiscali, ma preferisce che questa crisi contribuisca a rimettere in ordine la finanza. L’orientamento è verso un’economia tecnologicamente avanzata e con una forte crescita della produttività, senza fare sconti agli speculatori, verso cui il governo è determinato a mantenere la stretta.
Né l’importo delle insolvenze preoccupa più di tanto. Le imprese appartenenti ai governi locali hanno un patrimonio stimato di circa 210 trilioni di Renminbi, contro i circa 50 di debiti, che, anche prevedendo un forte calo del prezzo degli immobili, potrebbe essere venduto in parte per onorare i debiti.
La diversità con la situazione del 2008 negli Stati Uniti è enorme. I mutui cartolarizzati ammontavano a circa 2 trilioni di dollari, il loro valore era pari a circa l’80%, e successivamente raggiunse il 90%, della copertura ipotecaria. Quando il valore di questi debiti si dimezzò, il divario con le garanzie divenne incolmabile. La Federal Reserve, non volendo contraddire il carattere liberale delle politiche economiche, intervenne solo inondando il sistema di liquidità e creando così le condizioni per la formazione della successiva bolla speculativa.
In Cina invece i debiti ipotecari ammontano a meno del 40% del valore delle proprietà immobiliari finanziate. Se anche vi fosse una corsa a disfarsi dei titoli bancari cinesi per il timore che le banche possano essere chiamate a intervenire, si determinerebbero una riduzione dei profitti e delle quotazioni bancarie, ma non problemi sistemici, perché il volume delle partite a rischio è molto più piccolo del complesso delle attività. Inoltre la Cina non ha un mercato dei subprime, elemento chiave della crisi americana del 2008. Una conferma che i mercati non considerano elevati i rischi viene dal fatto che le quotazioni dei titoli a copertura dei rischi, i famosi Credit Default Swap (CDS) sono state stabili nelle ultime settimane e intorno al loro minimo storico, segno che gli speculatori non prevedono grandi rischi.
Mentre le banche USA vanno incontro a una crisi che potrebbe vederne cadere diverse, come è avvenuto per la Silicon Valley Bank e per altre, questo non si va prospettando per la Cina.
Se la Federal Reserve è riuscita a fornire liquidità alle banche acquistando titoli in loro possesso, non è pensabile che la cosa possa durare a lungo, senza che faccia capolino una nuova bolla.
Contano l’indebitamento e l’attivo commerciale
Gli Stati Uniti hanno una posizione finanziaria netta passiva per 18 mila miliardi e con ciò sono esposti ai capricci dei creditori internazionali, i principali dei quali sono, guarda caso, la Cina e l’Arabia Saudita, tanto che l’agenzia di rating Moody’s ha declassato le banche commerciali americane e l’altra, Fitch, si appresta a farlo. La Cina, al contrario, è una creditrice netta per circa 4.000 miliardi di dollari sul resto del mondo, oltre ad avere diritto su circa la metà degli 800 miliardi attivi di Singapore. I 300 miliardi delle azioni Evengrande, anche si azzerasse il loro valore, costituirebbero una perdita riassorbibile agevolmente col patrimonio. I paesi in forte surplus commerciali e alti livelli di risparmio non hanno crisi finanziarie e la Cina ha in abbondanza risorse per coprire il servizio del debito dei governi locali meno virtuosi, mentre il sistema bancario, sotto stretto controllo governativo, sarebbe in grado di concedere, senza rischi, nuovi prestiti se le decisioni politiche si orientassero in tal senso.
Ci sarebbe un’altra considerazione da fare. L’esposizione delle società finanziarie cinesi non certamente è tutta verso l’interno o tutta verso l’estero. La speculazione in buona parte è stata effettuata da gruppi finanziari occidentali e probabilmente mediorientali. Non ho gli strumenti per appurare chi sono i creditori, ma sarebbe molto interessante una ricerca in proposito, per capire su chi ricadrebbero principalmente i guai se il governo cinese decidesse di lasciare perire queste imprese oggi poco o per niente interessanti dal punto di vista produttivo. Con certezza si sa però che Evergrande ha presentato istanza di protezione dal fallimento negli Stati Uniti per ristrutturare il proprio debito, ammontante a circa 340 miliardi di dollari e una fonte italiana, il commentatore embedded di cose economiche Fabio Carbone afferma che, dei 340, 19 miliardi sono verso soggetti stranieri. La stessa fonte, pur dipingendo la cosa, ci mancherebbe! a tinte fosche, deve ammettere a denti stretti che non siamo di fronte al caso di Lehman Brothers. «Qui il partito comanda su tutto e le regole di libero mercato sono sottomesse, quindi la Cina potrebbe anche scegliere strade “insolite” per un paese democratico ma che potrebbero avere la capacità di evitare un tracollo del sistema immobiliare cinese». E se lo dice lui….
Il fallimento è del capitalismo occidentale
Il capitalismo occidentale per anni ha delocalizzato gran parte del sistema produttivo e ha vissuto di finanza, indebitandosi. Ora gli investitori che avevano coperto quei debiti se ne stanno andando e ci lasciano in brache di tela.
Per non ammettere il fallimento del capitalismo nel suo insieme, ci viene raccontata la balla della crisi importata dalla Cina e ci viene nascosta un’altra realtà, cioè che siamo in guerra contro Russia e Cina proprio a causa della crisi del capitalismo e che la risposta americana alle proprie difficoltà è anche la strategia di aggressione al sistema produttivo europeo, demolendolo e cercando di fagocitarlo con il blocco alle importazioni di prodotti energetici russi e con l’Inflation Reduction Act consistente in enormi finanziamenti alle imprese USA che aprono i battenti di stabilimenti “green”. I quali poi green lo sono poco e non sarebbe sorprendente una bella e originale crisi di sovrapproduzione green.
Per lo stesso motivo di contrasto alla Cina e ai paesi che si vanno liberando del giogo imperialista, si lavora per costruire una sorta Nato nel pacifico in funzione aggressiva alla Cina o ai paesi del Golfo Persico.
Le lezioni da trarre
Avevo premesso che il compromesso della Cina con il capitale è stata una necessità. Per fortuna si è intrapresa quella strada, altrimenti, probabilmente, non si sarebbero aperte le prospettive di transizione al socialismo in buona parte del globo che invece si stanno aprendo. Però il settore privato è cresciuto fino a oggi in maniera sostenuta, più di quello pubblico, e va crescendo il rapporto fra i pesi dei de settori. Come evitare che il maggiore rilievo economico del settore capitalistico privato possa tradursi, nonostante le rigorose regole e il forte controllo da parte del Partito Comunista Cinese, in maggiore rilievo politico? Qui, naturalmente, entrano in gioco gli esiti della lotta di classe, assai vivace in Cina.
Non spetta certo a noi occidentali, specialmente a noi italiani che siamo stati capaci di azzerare clamorosamente il patrimonio del movimento comunista, frammentato in mille pezzi subatomici, indicare la strada da percorrere. Ma la gravissima crisi da cui il capitalismo internazionale non riesce a districarsi ci potrebbe indicare che ora, raggiunto un livello di “prosperità media”, un elevatissimo livello di capitalizzazione e un alto livello tecnologico, potrebbe essere il momento di ridurre, con gradualità, gli spazi del capitale e accrescere il peso dell’economia consapevolmente gestita rendendo sempre più marginali i meccanismi spontanei del mercato, visto che la “mano invisibile” di smithiana memoria ha funzionato per secoli ma ora è al capolinea e che la stessa Cina ora è raggiunta dai primi segnali delle turbolenze connaturate al capitalismo. Forse è ancora troppo presto per una simile svolta? Può darsi. Ma dovrebbe anche essere evitato il pericolo che una simile decisione venga presa troppo tardi.
Ci spetta invece, come comunisti occidentali e italiani, ragionare cosa dovremmo fare noi. L’Unione Europea, oltre a essere concepita, fin dalla troppo magnificata concezione dei “padri fondatori”, in chiave antisovietica e funzionale alla guerra fredda, ha nelle proprie regole il liberismo più estremo, quello stesso previsto nei trattati di economia mainstream ed è di fatto impossibile in questo recinto una politica economica socialmente compatibile. Pensare di poter riformare questa istituzione, mentre le peggiori destre si vanno impadronendo di governi e ad esse si contrappone, per modo di dire, un “centrosinistra” – così impropriamente denominato – che è l’alfiere del grande capitale, con pochissime e scarsamente rilevanti eccezioni, mi pare illusorio. I cambiamenti che stanno avvenendo nel mondo, e che solo alcuni decenni fa parevano impensabili, ci dicono che si vanno aprendo per tutti gli spazi di un affrancamento dall’imperialismo e di una ricerca, per evitare l’isolamento, di interlocutori internazionali. Dovremmo assimilare bene gli esiti della riunione dei BRICS, da cui avevamo esordito, che vanno ormai associando paesi asiatici, africani e americani e in cui un po’ di Europa mediterranea potrebbe non starci male.
* Del Gruppo di Lavoro “Economia, Agricoltura, Politiche economiche” del Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”.