di Domenico Sferlazzo*
Husam Zomlot, ambasciatore palestinese nel Regno Unito, invitato alla BBC viene incalzato dalla domanda del giornalista in studio “Lei sostiene Hamas? Allora? Allora? Allora?”. L’ambasciatore risponde: “Questa non è la domanda giusta. Io non sono qui per emettere condanne e se c’è qualcuno meritevole di condanna è quella che voi chiamate “l’unica democrazia del Medio Oriente”. Io sono qui per rappresentare il mio popolo, ciò che sta subendo.
«La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi» affermava Clausewitz in “Della guerra” (1832). Ma possiamo credere che non ci sia alternativa ad una politica senza guerra? È possibile che la politica non si possa fermare ad uno stadio dello scontro dialettico? Possiamo arrenderci al postulato fino ad oggi validissimo di Clausewitz? Intanto, questa affermazione ci può servire per fare un’analisi molto più lucida di ciò che sta avvenendo in questi giorni e provare a dare la giusta dimensione storico-politica alla questione israelo-palestinese che è lunga e complessa e qualcosa inevitabilmente resterà fuori ma cercherò di fare un’analisi che tenga conto degli eventi più importanti seguendo la linea tracciata dallo spunto di Clausewitz.
Nel conflitto israelo-palestinese c’è un problema politico di fondo che è quello dell’usurpazione da parte di Israele della terra e della sovranità politica, culturale ed economica del popolo palestinese. Questa usurpazione contiene in sé il germe della guerra. Alla fine dell’Ottocento la Palestina (da quattro secoli) faceva parte dell’Impero turco-ottomano e lì convivevano pacificamente arabi, la maggioranza della popolazione, ed ebrei. Proprio in quel momento in molte parti del mondo imperversava l’antisemitismo che sarebbe poi sfociato nell’orrore dei campi di concentramento in cui circa 6 milioni di ebrei furono sterminati nei territori europei occupati dalla Germania nazista, compresa l’Ucraina dell’“eroe” Stepan Andrijovič Bandera ancora oggi osannato dal governo ucraino (che ha più di un richiamo al nazifascismo) a cui continuiamo a mandare armi. Va ricordato anche quale impulso diedero gli USA al nazismo: come non citare L’ebreo internazionale dell’imprenditore statunitense Henry Ford, un’opera antisemita del 1920 a cui Hitler, per sua stessa ammissione, si ispirò per scrivere il suo Mein Kampf. Proprio a fine Ottocento nasce il movimento sionista di cui il punto politico centrale è la creazione di un nuovo Stato in quella che è definita “Terra di Israele”, in grado di offrire una patria a tutti gli ebrei dispersi nel mondo. E sempre alla fine dell’’800 cominciano ondate massicce di emigrazione di ebrei verso la Palestina.
Nel 1897 Theodor Herzl fonda l’Organizzazione Sionista Mondiale, che incentiva l’emigrazione degli ebrei in Palestina. Nel 1917, l’allora ministro degli esteri inglese Arthur Balfour scrive a Lord Rothschild, referente del movimento sionista, riconoscendo il diritto degli ebrei alla creazione di una “dimora nazionale” in Palestina. Questa dichiarazione verrà inserita all’interno del Trattato di Sèvres, (in seguito sostituito dal trattato di Losanna (1923), firmato tra le potenze alleate della Prima Guerra Mondiale: Francia, Giappone, Grecia, Italia, Regno Unito e l’Impero ottomano, trattato che segna anche la disgregazione dell’impero turco-ottomano e l’assegnazione della Palestina al controllo del Regno Unito. Gli ebrei emigreranno sempre in numero maggiore verso la Palestina incoraggiati e sostenuti per l’acquisto di terreni dal movimento sionista.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il 29 novembre 1947 l’ONU, sotto il peso dell’orrore appena vissuto nei campi di concentramento nazisti, vota un piano di spartizione tra uno Stato ebraico e uno arabo, proponendo uno statuto speciale per Gerusalemme. Gli Stati vincitori, per purificare la coscienza dell’Europa, non danno agli ebrei un territorio appartenente al proprio continente ma pensano invece di sottrarre metà dei territori ai palestinesi venendo incontro al progetto sionista. Ancora una volta la guerra si rivela lo strumento politico per eccellenza e le ragioni del popolo palestinese passano in secondo piano. La proposta, ovviamente, viene accettata dal movimento sionista e rifiutata dai palestinesi, che ricordiamo in quel momento erano 1,2 milioni, contro i 600 mila ebrei. Il 15 maggio 1948 il leader dell’Organizzazione sionista mondiale, Ben Gurion, proclama la nascita dello Stato di Israele di cui diviene primo ministro. Da qui ha inizio il conflitto arabo-israeliano. Ci sono ben 73 risoluzioni dell’ONU contro Israele che ha negli anni rubato la terra ai palestinesi, facendo massacri, torture e arresti senza processi. Risoluzioni che, purtroppo, sono rimaste carta straccia mentre Israele ha oramai occupato gran parte del territorio palestinese. Segno della scarsa incisività e della faziosità dell’ONU. Israele vince il suo punto politico non con mezzi democratici ma attraverso la guerra e lo sterminio del popolo palestinese. Vince ben 4 guerre: la prima guerra arabo-israeliana (1948), la guerra del Sinai (1956), la guerra dei sei giorni (1967), sempre nel 1967 Israele occupa la Cisgiordania, che era stata annessa alla Giordania nel 1950, la guerra del Kippur (1973). Dopo di che, gli Stati arabi decidono di non partecipare a guerre dichiarate contro Israele. Nel 1978, con gli Accordi di Camp David, il Sinai torna all’Egitto, che riconosce lo Stato ebraico. Non è forse questa una vittoria politica data dalla superiorità militare di Israele, con il sostegno degli USA? E in queste guerre non vi furono morti, ingiustizie, orrori?
Nel 1982, scoppia la Prima Guerra del Libano, quando l’esercito israeliano invase il paese per espellere le forze palestinesi con l’eccidio di Sabra e Shatila in cui vennero trucidati un numero di civili compreso fra 762 e 3.500, prevalentemente palestinesi e sciiti libanesi. Civili non militari. È in questo contesto che nasce la libanese Hezbollah una delle due organizzazioni politiche-militari di ispirazione musulmana che attualmente stanno giocando un ruolo importante nel conflitto tra Israele e Palestina. È nel 1987, anno della prima Intifada, che viene fondata, invece, la palestinese Hamas. Anche queste due organizzazioni sono figlie della guerra e in quanto tali utilizzano la guerra per portare avanti rivendicazioni politiche proprio come insegna Clausewitz. Nel 1988, con la dichiarazione d’indipendenza della Palestina da parte dell’OLP, guidata da Yasser Arafat, si scatena un nuovo conflitto denominato “Intifada” (sollevazione) in cui le armi principali dei palestinesi furono le pietre. Le pietre. Puoi avere tutte le ragioni del mondo ma quando devi affrontare con le pietre uno degli eserciti più forti che ci siano, hai poche possibilità di fare valere le tue ragioni. Nel 1993 con gli Accordi di Oslo, finisce la prima Intifada. Arafat e l’allora primo ministro israeliano Yitzhak Rabin firmano l’intesa che prevedeva il ritiro delle forze israeliane dalla Striscia di Gaza e da alcune aree della Cisgiordania e la creazione di uno Stato palestinese entro cinque anni. Questo processo di pace si chiude nel 1995, quando il primo ministro israeliano Rabin viene assassinato da un nazionalista israeliano. Un nazionalista israeliano non un fondamentalista islamico. Nel 2000 scoppia la seconda Intifada, quando l’allora capo dell’opposizione israeliana Ariel Sharon entra nel complesso della Spianata delle moschee di Gerusalemme dove sorgono le due antiche moschee (al-Aqsa e la Cupola della Roccia).
Nel giugno del 2002, Israele iniziò la costruzione di un muro in Cisgiordania (oggi lungo quasi 600 km). La Corte Internazionale di Giustizia (CIG), il principale organo giudiziario delle Nazioni Unite, nel parere del 9 luglio 2004 “Muro in Palestina”, ha ritenuto che la costruzione del muro costituisse una violazione del principio di autodeterminazione dei popoli e del divieto di annessione con la forza di territori altrui, oltre ad aver violato vari diritti umani e il diritto internazionale umanitario. La seconda Intifada terminò ufficialmente nel 2005. Dal 2006 è in corso il conflitto Israele-Striscia di Gaza, governata da Hamas che è stata regolarmente eletta attraverso elezioni, mentre dal 2007 Egitto e Israele hanno chiuso gran parte delle frontiere con muri di cemento e filo spinato.
La Palestina oggi è uno Stato riconosciuto da 138 (su 193) Paesi membri dell’ONU eppure non riesce ad avere garantite le proprie ragioni attraverso le istituzioni internazionali a partire dall’ONU.
Ora il punto è uno: la guerra è fatta di morte, distruzione e ingiustizie che quasi sempre pagano i più innocenti e deboli. Ma oggi chi è che non ha voluto fermare la guerra per riportare il conflitto su un piano politico? Dovrebbero essere le ragioni della Storia, questa sconosciuta, a dover decidere su una questione piuttosto che su un’altra. Invece, assistiamo ad una martellante propaganda sul terrorismo di Hamas. Gli esempi si sprecano: ad esempio, recentemente, Husam Zomlot, ambasciatore palestinese nel Regno Unito invitato alla BBC viene incalzato dalla domanda del giornalista in studio “Lei sostiene Hamas? Allora? Allora? Allora?”. L’ambasciatore risponde “Questa non è la domanda giusta. Io non sono qui per emettere condanne e se c’è qualcuno meritevole di condanna è quella che voi chiamate “l’unica democrazia del Medio Oriente”. Io sono qui per rappresentare il mio popolo, ciò che sta subendo. Sa perché mi rifiuto di rispondere a questa domanda? Perché non ne accetto la premessa. Perché dietro la domanda si cela una falsa rappresentazione della situazione. Si smetta di tracciare simmetrie: qui c’è un occupante e un occupato. Perché ci si aspetta che siano sempre i palestinesi a condannare sé stessi?”.
A parole tutti si dicono contro la guerra ma quando siamo noi a farla si trova sempre qualche giustificazione e un appellativo: guerra preventiva? Esportazione di democrazia? Missione di pace? Guerra al terrorismo? Guerra per i diritti umani? Ma oggi chi è che non vuole fermare la guerra?
Il 17 ottobre 2023 la Russia presenta una mozione all’ONU per una tregua immediata e per “riavviare trattative di pace con la prospettiva di costituire uno Stato palestinese”. Le delegazioni di Francia, Giappone, Stati Uniti e Regno Unito hanno votato contro perché nella risoluzione non si menzionava Hamas. Il 18 ottobre il Brasile presenta una bozza al Consiglio di Sicurezza dell’Onu per chiedere una “tregua umanitaria” per consentire l’entrata di aiuti umanitari nella striscia di Gaza. Nella risoluzione venivano condannati in maniera netta i recenti attacchi terroristici di Hamas. Sono stati solo gli USA a mettere il veto contrario stavolta perché mancava un’affermazione sul diritto di Israele all’autodifesa. Allora bisogna fare una seria riflessione sulla guerra, la politica e la pace. La pace non si costruisce su “Scurdammoce o passato” ma si costruisce, invece, a partire dall’applicazione della giustizia attraverso gli organi che la comunità internazionale si è data e attraverso la promozione del dialogo e dei metodi democratici. Chi ruba la terra ad un altro popolo attraverso la violenza non può far valere nessun tipo di ragione sul piano democratico e ha solamente la guerra come metodo per far valere le proprie ragioni.
Ricorderete tutti la grande narrazione su invasore e invaso messa alla base per ogni discussione sul conflitto tra Russia e Ucraina, narrazione magicamente scomparsa nella questione palestinese e sostituita dalla più rodata e semplice da spacciare, il terrorismo di matrice islamica.
Nella questione politica come nella guerra, sappiamo il ruolo fondamentale che gioca l’informazione di massa. Che in realtà in-forma le masse invece di informarle. Come diceva il caro Bene l’informazione in-forma i fatti e non sui fatti. La violenza e la bestialità sono nella Storia e sono momenti della politica che tutte le società hanno utilizzato in maniera più o meno estrema. In questo momento ci vorrebbe un cessate il fuoco globale e una seria disamina dei fatti che hanno portato ai conflitti, ma per fare questo manca una sede credibile a livello internazionale. Forse dovremo passare nuovamente per la guerra per avere delle istituzioni nazionali e sovranazionali in grado di garantire che le ragioni possano essere fatte valere sul piano politico e giuridico prima che militare? Ci sono troppe guerre dietro le nostre spalle di cui la stragrande maggioranza sono state portate avanti dagli USA, giustificate con argomenti che puntualmente si scoprono menzogneri e, in realtà, mirate al predominio militare ed economico globale. La questione politica generale è proprio questa, uscire da questo mondo a guida USA che ha prodotto nel mondo guerre, inquinamento e impoverimento delle masse popolari. Poiché la guerra principale non è tra nazioni e aree geografiche ma tra classi che subiscono un divario sempre maggiore. Quell’1 per cento di ricchi che detiene gran parte della ricchezza mondiale e che ha tutto l’interesse affinché il mondo continui a infiammarsi sotto le bombe e la minaccia di un conflitto nucleare. I super ricchi a fare super profitti, lo hanno fatto durante la pandemia e continuano a farlo durante le guerre. La domanda che mi faccio è: il nascente mondo multipolare sarà in grado di raccogliere questa sfida e generare una pace e uno sviluppo armonico del genere umano per un tempo che sia il più lungo possibile? Sarà in grado di eliminare il più possibile le differenze di classe? E le classi subalterne saranno in grado di organizzarsi per prendersi i diritti e il potere di cui sono stati privati? La questione palestinese è emblematica per sciogliere questi nodi e senza una risoluzione del problema che garantisca ai palestinesi la propria terra e la propria sovranità, il multipolarismo non potrà mai assolvere il suo compito storico prima di tutto eliminare la guerra come continuazione “naturale” della politica.
* Militante politico; musicista, artista e ricercatore della storia e delle memorie di Lampedusa. Del Centro Studi “Domenico Losurdo” di Lampedusa.