Di Fulvio Bellini
Premessa: i “Grandi Camaleonti”
È morto Giorgio Napolitano, emerito Presidente della Repubblica, alla veneranda età di 98 anni. Dal punto di vista degli italiani non è una notizia rilevante, semplicemente se ne è andato un responsabile, insieme ad altri “Grandi Vecchi” che ancora occupano cariche di potere ufficiali ed ufficiose come Sergio Mattarella e Giuliano Amato, dell’assoluta decadenza e degrado nella quale è finita l’Italia. Per essere più chiari: se in Italia abbiamo avuto un Mario Draghi (quello invitato sul Panfilo Britannia), un Romano Prodi, un Massimo d’Alema, un Walter Veltroni, un Gianfranco Fini, un Silvio Berlusconi fino ad arrivare a Giorgia Meloni, Napolitano ha avuto la sua parte rilevante nella schiera dei “Santi che entrano marciando”, per parafrasare il celebre spiritual americano, che hanno ricacciato questo paese nell’ennesimo periodo buio della sua storia. Dal punto di vista dell’opportuna conoscenza dei personaggi politici, tema assai attuale, invece Napolitano ha una grande importanza e merita il titolo onorifico di “piccolo camaleonte”, ma non nel senso sciatto che gli è stato dato dall’editoriale del Giornale del 23 settembre scorso, scritto con acrimonia solo allo scopo di recriminare su di un avversario di Berlusconi; troppo poco madama la marchesa. La RAI non è sempre stata una fabbrica inesauribile di cialtroni e cialtronate come quella di oggi, tutt’altro. Uno dei meriti della Democrazia cristiana, ponendo il proprio stivale chiodato su viale Mazzini, è stato quello di scegliere validissimi dirigenti come Ettore Bernabei, il quale a sua volta ha dato spazio ad altrettanti validi autori e registi, come Edmo Fenoglio, di esercitare la loro vena creativa. Insieme ad ottimi registi la RAI di allora ha potuto contare su di un gruppo di attori di straordinario livello come Raoul Grassilli, Tino Carraro, Mario Pisu, Giancarlo Sbraglia, Valentina Cortese eccetera. Morale: nel 1964 la RAI mandava in onda un autentico capolavoro “I Grandi Camaleonti” che era il seguito di un altrettanto straordinario sceneggiato “I Giacobini”, purtroppo andato perduto. I “Grandi Camaleonti” affrescava mirabilmente la Francia del dopo colpo di Stato del 9 Termidoro (27 luglio 1794) fino all’incoronazione di Napoleone avvenuta l’11 Frimaio dell’anno XIII (2 dicembre 1804). I personaggi erano tanti, ma sorprendentemente non ci si soffermava sul condottiero corso, quanto su due figure che furono gli autentici dioscuri della Rivoluzione francese, del Direttorio, del Consolato, dell’Impero e della Restaurazione: Charles Mourice de Telleyrand Principe di Pèrigord e soprattutto Joseph Fouché insignito poi del bizzarro titolo di Duca d’Otranto. Lo sceneggiato descrive incredibili personaggi soprattutto giacobini, che dopo il distacco della testa avvenuto a Robespierre, tale era il prezzo che si pagava quando si sbagliava politica, per evitare di fare la stessa fine erano diventati quasi tutti, chi più e chi meno, “camaleonti”. Vi erano quelli piccoli come Tallien e Freròn; quelli medi come Barras; quelli grandi come Telleyrand; e quello grandissimo come Fouché. Durante lo sceneggiato ci si rende conto che è lui il vero protagonista della vicenda e delle vicende storiche di allora, e si descrive la sua capacità di passare, mantenendo la testa al suo posto: dall’essere stato Cordigliere (diremmo oggi di centro destra), a quello di Giacobino pure Hérbertiano (estrema sinistra); dall’aver scritto il primo documento comunista moderno (secondo la bella biografia di Stefan Zweig pubblicata nel 1929 e che sta alla base dello sceneggiato); dall’essere ateo ed anti clericale, all’essere soprannominato “Le mitrailleur del Lyon” (il mitragliatore di Lione) per aver massacrato più di 6.000 persone in poche settimane con l’uso dei cannoni caricati a mitraglia appunto, perché a suo giudizio la ghigliottina non era abbastanza “produttiva”. Fouché era consapevole di aver esagerato nelle sue mansioni di Rappresentante in Missione della Convenzione a Lione, e per prevenire la certa decapitazione ordinata da un Robespierre indignato, congiurò con successo per tagliare la sua, giocando una partita mortale all’interno della Convenzione. Non più giacobino, fu riammesso alla politica attiva da Barras, mentore suo e di Napoleone, fu nominato ministro di polizia dal Direttorio, ruolo che gli permise di essere uno dei principali ideatori della polizia politica moderna, non nel senso vile del termine, bensì in quello che oggi si definirebbe “servizio d’intelligence”. Come ministro di polizia liquidò il club dei Giacobini, e con il concorso di Telleyrand liquidò Barras ed il Direttorio, agevolò l’ascesa al potere di Napoleone, servì sotto l’Imperatore fino a quando ve ne fu senso politico, per poi trattare il ritorno dei Borboni. Gestì la parentesi rappresentata dai cento giorni della ricomparsa del corso a Parigi, sempre nelle funzioni di ministro di polizia, ma di fatto ricoprendo il ruolo di Primo Ministro. Infine, fu sempre Fouché a garantire il definitivo rientro di Luigi XVIII a Parigi senza spargimenti di sangue dopo la battaglia di Waterloo. Morì in esilio a Trieste, escluso a sua volta da Telleyrand, ma ritenuto uomo tra i più ricchi di Francia. Quali erano le straordinarie virtù di Fouché? Capacità di lettura del momento politico; capacità di lavoro, un uomo che leggeva rapporti, missive e lettere per ore ed ore; profonda conoscenza dell’animo umano; profonda conoscenza della burocrazia; coraggio, determinazione e sangue freddo associate ad una proverbiale riservatezza; assenza di vizi e perversioni. Certamente la sua stella polare fu la propria carriera, la propria sopravvivenza politica spinta alle estreme conseguenze, ma occorre anche ricordare che, a differenza dei politici di oggi, egli avrebbe pagato con la ghigliottina gli errori politici, ad esempio l’inutile attaccamento al giacobinismo dopo la caduta di Robespierre. Si trattava di solo opportunismo personale? Se fosse stato così non avrebbe meritato l’aggettivo “Grande”. In Fouché, come in Telleyrand, vi era una precisa visione del bene della Francia, e degli strumenti per raggiungerlo, ed in questa visione si possono definire dei Proto-marxisti. In entrambi era forte la capacità d’analisi del momento storico ed erano in grado di comprendere quando lo “strumento politico” al servizio della Francia nel dato momento storico era divenuto negativo: inadeguato l’Antico regime nel 1789, inadeguato il Terrore nel 1794, inadeguato il Direttorio nel 1799; inadeguato Napoleone nel 1814; di nuovo inadeguati i Borboni nel 1830 (per il solo sopravvissuto Telleyrand). Furono Grandi perché riuscirono protagonisti in anni terribili e, come ha insegnato Mao Zedong: “la rivoluzione non è un pranzo di gala: non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità”. Furono Grandi perché trasformarono un paese aristocratico, reazionario ed appesantito da retaggi feudali, in un paese borghese e moderno, in grado di rivaleggiare con la super potenza britannica per tutto il XIX secolo, anche se lo fecero da Camaleonti.
Il “Piccolo Camaleonte”
Veniamo a Giorgio Napolitano, ed alle ragioni per le quali è corretto definirlo un “piccolo camaleonte”. Poniamoci una domanda preliminare, con un ironico sorriso sulle labbra: Napolitano è stato più Fouché oppure più Telleyrand? Meglio ancora un poco di entrambi? Se pensiamo alle sue “misteriose” origini, che gli hanno dato un imprimatur “aristocratico”, uno stile unanimemente riconosciuto, e la singolare facilità nello stringere rapporti al massimo livello, Napolitano assomiglierebbe al Principe di Périgord. Insomma occorre scrivere un paio di righe su quello che, in fondo, è stato sempre un falso problema: Giorgio Napolitano era oppure no figlio naturale dell’ultimo Re d’Italia Umberto II, leggenda supportata dall’evidente somiglianza dei due uomini? La risposta non ha nessuna importanza in quanto in cuor suo lo ha sempre creduto e nella cosiddetta “vox populi” lo si è sempre ritenuto tale; basta prendere ad esempio un titolo tra i tanti: “Morto Giorgio Napollitano, l’ex comunista che divenne Re Giorgio”, il Fatto Quotdiano del 22 settembre scorso. Tuttavia, leggendo l’articolo, ci viene subito in mente lo stile riservatissimo di Fouché: “”Coniglio bianco in campo bianco”. Lo stemma araldico crudele a Giorgio Napolitano lo cuce addosso negli anni Ottanta Giuliano Ferrara, che gli imputa una congenita mancanza di coraggio. Napolitano il cortese, il garbato, fin troppo prudente, fin quasi a rasentare l’evanescenza, è l’accusa”. Non si tratta di paura: Stefan Zweig rimprovera per tutta la biografia ad Joseph Fouché di essere sempre stato fedele ad un partito, quello della maggioranza, e per questa ragione nei momenti di cambiamento degli schieramenti era sua caratteristica diventare evanescente, un coniglio bianco in campo bianco, appunto. Una volta determinata la nuova tendenza, sempre prima di chiunque altro, Fouché usciva allo scoperto anche in modo plateale. Giorgio Napolitano ha sempre associato alla sua riservatezza una smodata ambizione, ed ha sempre considerato il partito un mezzo per arrivare e non una missione di militanza politica, proprio per evitare un’eccessiva connotazione comunista che avrebbe presumibilmente compromesso il raggiungimento delle cariche alle quali ambiva, che erano eminentemente istituzionali e non partitiche. Simile al rapporto di Fouché con i Giacobini è stato quello tra Giorgio Napolitano con il Partito comunista italiano. Nel 1945 entra nel PCI, e nel 1953 è eletto deputato a Napoli, carica che terrà, tranne rare parentesi, per settant’anni alla faccia della propaganda occidentale a proposito degli autocrati inamovibili russi e cinesi. Nel 1956 la maggioranza del partito è solidale con l’invasione sovietica dell’Ungheria, ed anche Napolitano si allinea alla maggioranza del partito; tuttavia erano i medesimi anni nei quali la figura dell’”ortodossia sovietica” impersonata da Pietro Secchia si avviava al tramonto progressivamente sostituita da quella “socialdemocratica” impersonificata da Giorgio Amendola. Come Fouché, Napolitano ha il fiuto di comprendere da quale parte si sta spostando l’asse del partito, ed è pronto a mettersi sotto l’ala di Amendola, contribuendo al lungo e complesso processo che avrebbe portato alla segreteria di Enrico Berlinguer, il dirigente comunista che si sentiva più al sicuro sotto l’ombrello della NATO, e che non voleva assolutamente che l’Italia ne uscisse. Napolitano era dalla “parte giusta” del partito, ma il grande salto verso il potere era ancora di là dal venire. Innanzitutto mancava ancora una condizione imprescindibile: che fosse conosciuto ed apprezzato nella metropoli imperiale americana, e che soprattutto ricevesse l’approvazione da parte del gotha della politica USA. Detto fatto: nel 1978 è il primo dirigente comunista italiano ad ottenere il visto d’ingresso negli Stati Uniti, grazie ai buoni uffici, e pure astuti, di Giulio Andreotti, per una serie di conferenze presso prestigiose università, ed evidentemente il contenuto di tali simposi non furono prettamente bolscevichi, visto che si guadagnò l’apprezzamento nientemeno di Henry Kissinger, che lo definì: “il mio comunista preferito”. Il PCI secchiano era stato liquidato, l’imprimatur americano era stato ottenuto, cosa mancava a Napolitano per andare al potere in un paese profondamente corrotto come l’Italia e quindi estremamente formalista? Semplice: che si liquidasse anche il simbolo ed il nome del PCI: “Se il Partito comunista decidesse di cambiare nome, la scelta più opportuna sarebbe quella di Partito del lavoro o partito dei lavoratori… In ogni caso non mi scandalizzerei di un cambiamento del nome, ma vorrei che fosse legato a dei fatti politici…” disse Napolitano, membro della commissione internazionale del PCI nel febbraio 1989. Le “antenne” del dirigente comunista avevano captato di nuovo il cambiamento, il 9 novembre dello stesso anno il Muro di Berlino crollava. Per essere un autentico camaleonte occorre sempre prevedere gli avvenimenti prima degli altri, e tali intuizioni nascono da tre componenti: un’importante preparazione personale; un innato intuito; essere parte di una rete informativa al massimo livello. Al contrario, per capire cosa fare il giorno dopo la caduta del Muro è sufficiente un Occhetto qualsiasi. In ogni caso, liquidato il PCI, per Giorgio Napolitano si spalancarono le porte del palazzo: presidente della Camera dei Deputati (1992-1994); ministro dell’Interno e della Protezione Civile (1996-1998); e soprattutto Presidente della Repubblica ottenendo due record, e cioè primo presidente “comunista” della storia repubblicana e primo presidente della Repubblica ad essere rieletto a fine mandato (2006-2015); senatore a vita fino alla morte.
I Camaleonti non sono soltanto opportunisti
Si sbaglia a ritenere i camaleonti mossi esclusivamente da pura ambizione personale. Nella scena finale de “I Grandi Camaleonti”, Napoleone e Fouché ricevono al Palazzo delle Tuileries Carlotta Robespierre, sorella di Maximilien, alla quale si sta assegnando una piccola pensione per ovviare alla sua indigenza. Entrambi gli uomini sono profondamente turbati dal ricordo dell’Incorruttibile, delle sue mani pulite, del suo mito ancora vivente, ufficialmente circoscritto tra il popolino delle periferie, ma effettivamente presente in loro stessi. Nonostante corone e titoli nobiliari, i due Camaleonti confessano per un breve attimo di essere ancora dei repubblicani, e di subire ancora il terribile fascino del loro esatto contrario, Robespierre appunto. Giorgio Napolitano una sua idea dell’Italia e del suo posto nel mondo l’aveva, ed in cuor suo un angolo per alcuni valori del comunismo erano sopravvissuti nonostante il pieno abbraccio alla socialdemocrazia ed all’atlantismo. La sua opinione dell’Italia, poco lusinghiera al dire il vero, era di un paese ormai avviato al declino, ma che dovesse comunque svolgere fino in fondo il suo dovere di “alleato” fedele delle potenze anglosassoni, anche a discapito del proprio interesse. Come Capo dello Stato era ma certo che la fedeltà atlantica avrebbe protetto l’Italia da ben peggiori calamità, come assecondare Silvio Berlusconi nella sua, al dire vero timida, difesa di Gheddafi in occasione della crisi libica del 2011, inimicandosi l’intero Occidente. Così ricorda l’avvenimento Il Giornale del 24 settembre: “Re Giorgio santo subito, ma non si può dimenticare che fu proprio Napolitano a suonare la carica per bombardare la Libia. Il vero plotone di esecuzione, prima di quello che ha “fucilato” il Cavaliere, è stato schierato contro il colonnello Muammar Gheddafi. Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica nel 2011, spingeva al massimo l’intervento in Libia: “Non lasciamo calpestare il Risorgimento arabo”. Dodici anni dopo il risultato è sotto gli occhi di tutti con un impatto diretto sull’Italia fra migranti (oltre 35mila solo quest’anno) e contratto sfumati già firmati fra l’Eni e Gheddafi”, non occorre aggiungere una parola. Se per gli italiani il cuore di Napolitano batteva assai poco, e dagli americani aveva solo bisogno del nulla osta per la scalata al potere, la sua incondizionata ammirazione ed il suo coinvolgimento emotivo ed intellettuale, “di classe” sarebbe opportuno dire, andava certamente per gli inglesi e per la Regina Elisabetta II in particolare, stima ricambiata, e non è un dettaglio trascurabile: “La regina Elisabetta e quella sintonia con l’italiano «re» Giorgio…. «Abbiamo fatto tardi perché eravamo a tavola per un piacevole lunch con il presidente Napolitano». Così la regina Elisabetta II, nella primavera 2014 si scusò, arrivando in Vaticano in ritardo di una ventina di minuti per il suo primo incontro con Papa Francesco… Quasi coetanei, a unirli anche la profonda conoscenza da parte del presidente Napolitano della cultura britannica, della lingua di Shakespeare, e un’affinità che l’aplomb del presidente emerito tradiva anche quando ormai si avviava al secolo quasi di vita. Proprio come Filippo, la «roccia» della regina, scomparso a 99 anni. Napolitano aveva nel suo studio, anche una foto della sovrana. E non aveva mai fatto mistero di trovarsi in sintonia con la regina, ricambiato”, Corriere della Sera del 22 settembre. Nonostante la decisa anglofilia del Presidente emerito, nella sua idea di bene per l’Italia non vi era posto per due persone: una nota ed una meno. Il personaggio indigesto è stato notoriamente Silvio Berlusconi, e le motivazioni erano così tante e clamorose che qui è sufficiente ricordare la principale: la scarsa fiducia che il governo del Cavaliere dava ai creditori esteri del debito pubblico italiano in anni particolarmente difficili come quelli del dopo crisi dei Subprime. La sfiducia di Bruxelles e di varie cancellerie europee si tradusse nella richiesta al Presidente Napolitano di rimuovere da Palazzo Chigi l’organizzatore dei Bunga-Bunga. Il leader che, invece, trovò Napolitano a sbarragli la strada verso il Quirinale fu Romano Prodi. Verso la fine del primo mandato presidenziale di “Re Giorgio”, il 19 aprile 2013 i grandi elettori del PD decisero di sostenere l’ex Presidente della Commissione europea per lo scrutinio decisivo dell’elezione del successore di Napolitano. Tuttavia, nonostante il dichiarato ed unanime appoggio, “inspiegabilmente” 101 delegati democratici fecero mancare il loro voto nelle urne, affondando il candidato Prodi e determinando anche le dimissioni di Bersani, allora segretario e di Rosy Bindi, allora Presidente del partito. L’ex Presidente della Commissione europea non la prese affatto bene, e decise di uscire dalla direzione nazionale del PD e di non rinnovare più la tessera. Alla sesta votazione Napolitano venne rieletto Presidente e lui, alla ragguardevole età di 88 anni, accettò la carica senza batter ciglio, ovviamente mosso dal consueto “spirito di servizio”. Non vi sono prove che alle spalle dei 101 franchi tiratori vi fosse Napolitano, o chi per lui, ed il sospetto risiede solo nella pronta accettazione del reincarico, fatto mai avvenuto prima nella storia repubblicana. È un certo ragionamento, che solo Napolitano avrebbe potuto fare, che induce a questo dubbio: quale colpa impediva a Romano Prodi di ottenere l’ennesima carica prestigiosa dopo quella di Capo del Governo e Presidente di Commissione? Forse di essere stato un Mario Draghi in versione casareccia? Forse di essere stato colui che aveva gestito il saccheggio, pardon la privatizzazione dell’IRI, in qualità di presidente dell’Istituto? A distanza di anni in Fouché, temuto ministro della polizia di Napoleone I, ricordava ancora i valori della rivoluzione robespierriana; magari in Napolitano vi era la coscienza, avendolo vissuto in prima persona, di cosa rappresentò l’IRI per il boom economico del dopoguerra ed al contrario quale disastro avesse significato per l’Italia l’epoca delle privatizzazioni selvagge. il Signor Prodi, un don Abbondio che si atteggia da statista, famelico di cariche quanto Napolitano, almeno il Quirinale se lo poteva scordare.
Conclusioni: perché Napolitano è stato un “Piccolo Camaleonte” Abbiamo cercato di spiegare perché Napolitano è stato un camaleonte, vediamo ora perché piccolo. In Fouché ed in Telleyrand vi era la consapevolezza di vivere in anni straordinari, che la Francia fosse il cielo mobile del mondo, del progresso, della rivoluzione, delle vittorie contro i reazionari di tutta Europa. Uomini eccezionali circondati da giganti, alcuni finiti sul patibolo ed altri a Sant’Elena. Napolitano non credette, invece, alla relativa grandezza dell’Italia del boom economico e soprattutto non fu disposto a difendere il sistema dell’economia mista. Credette invece nel potere superiore degli Stati Uniti e nelle sue stimmate: liberismo e liberalismo. Credette che il posto giusto per questo paese fosse in seconda fila, agli ordini dello straniero di turno, come era sempre stato dal Rinascimento in poi (tranne che per alcuni decenni dopo l’Unità d’Italia). Questa posizione, venuta alla luce per i fatti di Libia, nasceva dalla sua consapevolezza dei forti limiti della classe dirigente italiana e dalla sua personale prudenza; non tutti erano di questo avviso, ad esempio, i cavalli di razza della DC avevano tutt’altra opinione del ruolo internazionale di Roma. Il talento di Giorgio Napolitano è stato impiegato in questo: collocare l’Italia al suo posto subalterno nelle relazioni internazionali. Napolitano fu piccolo perché concorse a trasformare un paese che aveva guadagnato lo status di potenza regionale nel Mediterraneo, che era addirittura “eversivo” in economia, e che aveva decisamente elevato il livello medio del tenore di vita dei propri cittadini in un paese servo degli Stati Uniti nel modo più triste e volgare, strangolato da un liberismo di stile sudamericano, i cui cittadini sono privi di speranza per il proprio futuro, visti gli indici di natalità. I camaleonti sono mai stati amati: tutte le memorie dei protagonisti della Rivoluzione francese che hanno avuto la fortuna di poter scrivere le proprie memorie, Napoleone e Telleyrand compresi, hanno lasciato una pessima immagine di Fouché, personaggio oscuro ed intrigante. Napolitano non è sfuggito a questa legge, anche nel giorno dei suoi laici funerali di stato avvenuti il 26 settembre a Palazzo Madama; ai quali, se avesse assistito in spirito, lo avrebbero certamente lasciato amareggiato. Egli avrebbe osservato i presidenti della Repubblica e del Senato, che hanno organizzato i funerali, e che lo conoscevano da troppi anni, sogghignare sotto i loro volti impassibili. Innanzitutto non vi era un comunista presente, tanto meno tra gli oratori: Achille Occhetto, ultimo segretario del PCI, è ancora in vita ma si son ben guardati dall’invitarlo. Alcuni passaggi delle orazioni sono stati quasi canzonatori, nonostante le posture serie e celebrative: Ignazio La Russa, ex dirigente del MSI, è sufficiente che sia stato lui ad iniziare effettivamente il valzer delle orazioni; il figlio Giulio, un classico borghese che ha avuto il “merito” di nascere in una famiglia importante era maggiormente impegnato ad ingraziarsi l’augusto uditorio che ricordare il padre: “Disse di aver combattuto buone battaglie e sostenuto cause sbagliate”; Anna Finocchiaro, era un mistero cosa ci azzeccasse con la cerimonia: “Giorgio Napolitano si iscrive al Pci nel dicembre del ’45 e spiegherà di averlo fatto ‘per impulso morale, piuttosto che per motivazioni ideologiche’; l’ineffabile Gianni Letta: “Si chiude anche un capitolo tormentato e complesso di questa storia: dopo Berlusconi, Napolitano, a tre mesi uno dall’altro. Mi piace immaginare che incontrandosi lassù possano dirsi quello che non si dissero quaggiù e, placata ogni polemica, possano chiarirsi e ritrovarsi nella luce”: in altre parole Berlusconi sarebbe andato in Paradiso, avvenimento che metterebbe in crisi qualsiasi religione, e Napolitano, che non poteva vederlo quaggiù, avrebbe dovuto sorbirselo anche lassù; l’impenitente Giuliano Amato, l’uomo più a “sinistra” tra gli oratori, ha mellifluamente ricordato quanto fosse apprezzato dagli americani, da Kissinger innanzitutto, e come avesse ricevuto un premio a Berlino proprio dalle mani dell’ex segretario di stato, con lui presente come cicerone; Paolo Gentiloni ha ricordato il suo impegno per l’Europa in modo talmente generico da poterlo attribuire a chiunque. Nell’emiciclo, poi, erano presenti tutti i principali protagonisti dalla politica italiana degli ultimi trent’anni, con uno sguardo più simile a quello di congiurati che di affranti estimatori. Insomma si è consumata una piccola vendetta collettiva, perché se un telespettatore ignaro avesse assistito alla diretta delle esequie senza sapere di chi si trattasse avrebbe certamente supposto che fosse morto un notabile democristiano, al massimo socialista, ma mai e poi mai un comunista: come cancellare la storia politica di una persona incensandolo. Abbiamo accennato ai convitati del funerale, i cui volti vitrei (soprattutto di Prodi e di D’Alema seduti accanto l’uno dell’altro) inducono ad un’ultima riflessione: erano presenti eminenti personalità, di destra, sinistra e centro, che sono state artefici negli dello sfascio di questo paese. Tutti loro, in momenti e modalità diverse sono stati “premiati” per questo attivo impegno e neppure l’incredibile gestione della Pandemia con 191.586 morti ad oggi ha minimamente scalfito le loro reputazioni, i loro privilegi, le loro laute prebende. Un paese in decadenza spera sempre di toccare il fondo per poi risalire, oggi questa speranza assomiglia ad una chimera: “Se i tassi di interesse fossero rimasti quelli di due anni fa o dello anno scorso – ha detto Giorgetti (ministro delle finanze e presente ai funerali con tutto il governo n.d.r.) – oggi avevo 14-15 miliardi da mettere sulla riduzione fiscale”. Il rialzo dei tassi, quindi, “non è un fatto positivo, noi abbiamo un debito tale per cui lo spread dei tassi d’interesse, rispetto all’anno scorso, fa sì che una manovra di bilancio sia stata portata via, in qualche modo, dalla rendita finanziaria” (L’Unità del 20 settembre). Giorgetti fa il pesce in barile, si scorda che i tassi sono in rialzo a causa dell’inflazione, che l’inflazione è causata dall’embargo che in modo entusiastico l’Italia ha accettato di porre alla Russia ed al suo gas, al fatto che si sta acquistando energia e materie prime ai prezzi inflazionati del dollaro. Giorgetti si lamenta delle scelte fatte dal governo Draghi, nel quale era Ministro dello sviluppo economico, e confermate dal governo Meloni, nel quale dirige il dicastero delle Finanze, ma non li viene lontanamente il dubbio di doversi dimettere, e di spiegare agli italiani perché gli interessi sul debito stiano mangiando le risorse a scuola, sanità, servizi sociali eccetera. I personaggi riuniti nell’emiciclo ad assistere ai funerali di stato non erano camaleonti, e nemmeno semplici opportunisti; erano comparse di una recita sempre più triste, messa in scena da una compagnia di pessimi attori che hanno avuto, fino a qualche giorno fa, Giorgio Napolitano come impresario.